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MIlano, Mangiagalli condannata: un diritto il test preimpianto

Apr 19, 2017

anni

Sapere se il futuro figlio avrà la stessa malattia genetica di uno dei genitori, ricorrendo alla diagnosi preimpianto, è un diritto. Lo afferma — citando la consulta e la corte europea dei diritti dell’uomo — il tribunale di Milano. Un’ordinanza, firmata dal giudice Martina Flamini della prima sezione civile, impone alla Mangiagalli di eseguire «l’esame clinico e diagnostico sugli embrioni e il trasferimento in utero solo degli embrioni sani o portatori sani».

La causa è iniziata nel 2014. Al centro, una coppia in cui l’uomo è affetto da esostosi, una malattia genetica che provoca l’insorgere di tumori alle ossa. Una condizione grave, a causa della quale il paziente nel corso della vita può dover subire anche decine di interventi. Proprio per questo i due, da tempo desiderosi di avere un figlio, hanno deciso di ricorrere alla fecondazione assistita. Di fronte al rischio che il bambino potesse avere la stessa malattia del padre — le possibilità sono pari al 50 percento — hanno deciso di ricorrere alla diagnosi preimpianto, rivolgendosi alla Mangiagalli. Invano: l’ospedale ha infatti obiettato di non avere a disposizione i macchinari, e ha detto no. La coppia nel settembre 2014 ha così avviato una causa civile contro la struttura e la Regione, con il supporto dei legali Lara Giglio e Gianni Baldini. E, nel frattempo, ha eseguito per due volte test genetici su embrioni e successivi tentativi di impianto (falliti) in Grecia, spendendo più di 13mila euro.

Nel marzo 2015 il giudice Flamini ha sollevato la questione di costituzionalità, e inviato il caso alla Consulta. Che sul tema si è pronunciata pochi mesi dopo, con la sentenza 96/2015, dichiarando illegittima la legge 40, che regola la procreazione assistita, proprio «nella parte in cui non consente il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità».

Ed è proprio con riferimento alla sentenza della consulta — e al diritto sancito dalla corte europea dei diritti dell’uomo «di mettere al mondo un figlio non affetto dalla malattia genetica di cui sono portatori sani i genitori» — che il giudice Flamini, a cui il caso è tornato dopo il pronunciamento della suprema corte, adesso ha dato ragione alla coppia. Il tribunale dispone infatti che la Mangiagalli «esegua l’esame clinico e diagnostico sugli embrioni». Se non dispone della tecnologia necessaria, spetterà alla sanità pubblica «erogare tale prestazione in forma indiretta, mediante ricorso ad altre strutture sanitarie». Respinta invece la richiesta della coppia del rimborso delle spese sostenute, senza risultato, in cliniche private in Grecia.

Dopo la sentenza della Consulta, il ricorso della coppia era andato avanti visto che la Mangiagalli aveva deciso

sì di uniformarsi ai dettami della Corte costituzionale. Avviando però i test solo per tre malattie: emofilia, fibrosi cistica e talassemia. Ma non sull’esostosi, la patologia genetica della coppia. Che quindi, paradossalmente, finora era stata esclusa dalla possibilità di fare l’esame nell’ospedale che aveva scelto, nonostante la sentenza della suprema corte. Adesso, l’ordinanza del tribunale civile potrebbe, finalmente, sbloccare la situazione.

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