• 24 Novembre 2024 13:57

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In Italia una donna su 5 perde il lavoro dopo la maternità 

Mag 9, 2024

AGI – Sempre meno nascite in Italia. E una lavoratrice su cinque esce dal mondo del lavoro dopo aver avuto un figlio. Nel 2023 abbiamo raggiunto un nuovo minimo storico in un Paese ormai stabilmente ferme sotto le 400mila unità, con un calo del 3,6% rispetto all’anno precedente. Le donne scelgono di non avere figli o ne hanno meno di quanti ne vorrebbero: nella popolazione femminile in età fertile, convenzionalmente definita tra i 15 ei 49 anni, il numero medio di figli per donna, infatti, è di 1,20, mostrando una flessione rispetto al 2022 (1,24). Molto lontano dal dato del 2010, quando il numero medio di figli per donna aveva raggiunto il massimo relativo registrato nell’ultimo ventennio, pari a 1,44. Secondo Save The Children che ha presentato il rapporto sulla Maternità in Italia, La contrazione della natalità che accompagna l’Italia da decenni, ormai coinvolge anche la componente straniera della popolazione (nel 2023 meno 3mila nati rispetto all’anno precedente).

 

L’Italia è anche il Paese europeo con la più alta età media delle donne al momento della nascita del primo figlio (31,6 anni), con una percentuale rilevante di primi nati da mamme over 40 (8,9%, tasso inferiore solo a quello della Spagna). L’età media delle madri al parto rimane quasi invariata rispetto all’anno precedente (32,5 anni nel 2023 e 32,4 nel 2022). Il rapporto di Save the Children dal titolo “Le Equilibriste, la maternità in Italia” diffuso oggi a pochi giorni dalla Festa della Mamma, traccia un bilancio delle infinite sfide che le donne in Italia devono affrontare quando scelgono di diventare mamme. Come ogni anno, lo studio include anche l’Indice delle Madri, elaborato dall’Istat per Save the Children, una classifica delle Regioni italiane dove per le mamme è più facile vivere. Anche quest’anno, l’Indice indica la Provincia Autonoma di Bolzano a guidare i territori amici delle madri, seguita da Emilia-Romagna e Toscana, mentre fanalino di coda risulta la Basilicata, preceduta in fondo alla classifica, da Campania e Sicilia.

 

Se il rinvio della maternità e la bassa fecondità sono frutto di numerose concause, i dati rivelano che più aumenta la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, più aumenta il tasso di fecondità. Un elemento da tenere in debita considerazione, in un mercato del lavoro che sconta ancora un gap di genere fortissimo. Dai dati del Rapporto di Save the Children, emerge che in Italia il tasso di occupazione femminile (età 15-64 anni) è stato del 52,5% nel 2023, un valore più basso della media dell’Unione Europea (65,8%) di ben 13 punti percentuali. La differenza tra il tasso di occupazione degli uomini e delle donne nel nostro Paese, nello stesso anno, era di 17,9 punti percentuali, ben più marcata rispetto alle differenze osservate a livello EU27 (9,4 punti percentuali) e seconda, di pochissimo, solo alla Grecia, dove la differenza è di 18 punti percentuali.

 

Per le donne, il tema del bilanciamento tra lavoro e famiglia rimane critico per chi nella propria famiglia svolge un lavoro di cura non retribuito. Una spia delle difficoltà che le madri affrontano nel conciliare impegni familiari e lavorativi è rappresentata dal numero di donne occupate di età compresa tra i 25 e i 54 anni: a fronte di un tasso di occupazione femminile del 63,8%, le donne senza figli che lavorano raggiungono il 68,7%, mentre solo poco più della metà di quelle con due o più figli minori ha un impiego (57,8%). Al contrario, per gli uomini della stessa età, il tasso di occupazione totale è dell’83,7%, con una variazione che va dal 77,3% per coloro senza figli, fino al 91,3% per chi ha un figlio minore e al 91,6% per chi ne ha due o più.

 

Tante le disparità territoriali: al Sud d’Italia per le donne, l’occupazione si ferma al 48,9% per coloro senza figli (sono il 79,8% al nord e 74,4% al centro) e scende al 42% in presenza di figli minori arrivando al 40% per le donne con due o più figli minori (al nord sono il 73,2% e al centro 68,3%). Medesime disparità si notano anche per gli uomini, anche se con valori diversi: nel meridione gli uomini senza figli occupati arrivano al 61,5%, (sono 86,7% al Nord e 81,3%, al Centro), mentre quelli con figli minori raggiungono l’82,8% (96,7% al Nord e 94,5% al Centro).

 

È evidente come la nascita di un figlio influisca sulla disparità di genere nel mondo del lavoro. A dimettersi sono principalmente le madri, al primo figlio ed entro il suo primo anno di vita. Nel corso del 2022, infatti, sono state effettuate complessivamente 61.391 convalide di dimissioni volontarie per genitori di figli in età 0-3 in tutto il territorio nazionale, in crescita del 17,1% rispetto all’anno precedente. Il 72,8% del totale (pari a 44.699) riguarda donne, mentre il 27,2% riguarda uomini (pari a16.692), con una crescita maggiore di quelle femminili rispetto all’anno precedente. Anche quest’anno nelle motivazioni tra uomini e donne per le convalide, emerge una differenza significativa. Per le donne, infatti, quella principale è la difficoltà nel conciliare lavoro e cura del bambino/a: il 41,7% ha attribuito questa difficoltà alla mancanza di servizi di assistenza, mentre il 21,9% ha indicato problematiche legate all’organizzazione del lavoro.

 

Complessivamente, le sfide legate alla cura rappresentano il 63,6% di tutte le motivazioni di convalida fornite dalle lavoratrici madri. Per gli uomini, invece, la motivazione predominante è di natura professionale: il 78,9% ha dichiarato che la fine del rapporto di lavoro è stata dovuta a un cambio di azienda e solo il 7,1% ha riportato esigenze di cura dei figli. Tra le regioni più “amiche delle mamme”, spiccano ai primi posti dell’Indice generale la Provincia Autonoma di Bolzano (115,255), l’Emilia-Romagna (110,530), rispettivamente nella prima e nella seconda posizione dell’elenco. Subito dietro la Toscana, che rispetto alla scorsa edizione guadagna una posizione (109,239) e si attesta al terzo posto.

 

Sebbene rispetto all’anno precedente, la situazione italiana sia migliorata sia da un punto di vista assoluto, che da un punto di vista di gap territoriale, le regioni del Mezzogiorno, continuano a posizionarsi tutte al di sotto del valore di riferimento italiano, con alcune particolarmente lontane dalla quota 100. Calabria (92,671), Puglia (92,085), Sicilia (91,050), Campania (89,474) e Basilicata (87,441), fanalino di coda, occupano gli ultimi posti dell’Indice generale senza quasi stravolgimenti rispetto alla scorsa edizione, con uno scambio di posizioni tra la Puglia (18 ) che perde una posizione e la Calabria (17 ) che la guadagna. Relegate in fondo all’Indice, queste regioni più di altre, scontano i mancati investimenti sul territorio che si traducono in una carenza strutturale di servizi e lavoro. Tra le Regioni che più sono migliorate rispetto all’anno precedente, il Lazio che passa dal 13 all’8 posto guadagnando 5 posizioni e la Lombardia che dall’8 si attesta al 4 .

 

Le Marche (102,488), il Piemonte (100,979), l’Abruzzo (100,504) e la Liguria (100,321), occupano i primi posti nell’area Lavoro. Regioni dove, per le madri il mondo del lavoro, appunto, è più accessibile e dove il numero di dimissioni o quello delle riduzioni di orario di lavoro non volontarie dopo la nascita di uno o più figli sono più bassi. Di contro, la Puglia (84,667), la Provincia Autonoma di Trento (84,356), la Sicilia (81,567) e la Campania (81,535) sono quelle meno virtuose, occupando rispettivamente dalla diciottesima all’ultima posizione. Dai dati emerge inoltre che in Italia, mentre il lavoro a tempo pieno è più comune tra gli uomini rispetto alle donne, accade l’opposto per il lavoro part-time. In generale nel nostro Paese solo il 6,6% degli uomini che lavora, lo fa a tempo parziale, rispetto al 31,3% delle lavoratrici, che per la metà dei casi (15,4%) subisce un part-time involontario.

 

Tra coloro che hanno figli, aumenta notevolmente la percentuale di donne impiegate a tempo parziale (36,7%) rispetto a quelle senza figli (23,5%). Tra gli uomini, invece, si passa dall’8,7% per chi non ha figli al 4,6% per i padri. Uscendo dall’Italia, emerge che dal 2000 a oggi, la Francia è l’unico Paese europeo rimasto stabilmente vicino alla soglia di due figli per donna, benchè dal 2015 il Paese abbia visto gradualmente scendere il suo tasso di fecondità, con un’eccezione tra il 2020 e il 2021 quando il numero medio di figli per donna è tornato a crescere, e nel 2022 si attesta su 1,79 figli per donna. Il suo approccio è incentrato su un articolato sistema di sostegno finanziario alle famiglie e sulla garanzia di accesso a servizi per l’infanzia di qualità e tarati su diverse esigenze familiari. La Finlandia, pur avendo registrato una flessione nell’andamento demografico nel corso del 2022, ha sperimentato tra il 2019 e il 2021 una netta ripresa del tasso di natalità.

 

Il Paese ha adottato nel 2022 una delle riforme sul congedo più innovative d’Europa, che prevede l’allocazione simmetrica delle quote di congedo per ciascun genitore, con la possibilità di trasferire parte della quota all’altro genitore, un congedo parentale complessivamente più lungo e una maggiore flessibilità nell’utilizzo. L’accesso ai servizi per la prima infanzia è inoltre garantito a una percentuale di bambini molto elevata, soprattutto nella fascia tra i 2 e i 3 anni (69,6%). In Germania il tasso di fecondità è aumentato tra il 2020 e il 2021, ma ha avuto un drastico calo di nuovo nel 2022, passando da 1,58 a 1,46 figli per donna. Qui, oltre al supporto economico per i figli e la possibilità di usufruire di un congedo parentale part-time mentre si lavora per il resto del tempo compensando così la perdita di reddito al 67%, i bambini a partire da 1 anno di età hanno diritto a un posto in un asilo nido o in un servizio simile.

 

Infine, la Repubblica Ceca dal 2011 ha progressivamente aumentato il tasso di fecondità, fino ad arrivare a 1,83 figli per donna nel 2021; nel 2022 come e più che negli altri Paesi europei, anche qui il tasso è tornato a scendere. Il Paese, con un tasso di partecipazione ai servizi per l’infanzia 0-2 anni del 6% nel 2020, ha privilegiato un modello di cura tradizionale, favorendo lunghi periodi di astensione dal lavoro delle madri. Nel frattempo, l’Italia registrava tassi di fecondità costantemente sotto 1.5 con una flessione iniziata nel 2007 e mai interrotta (se non per 1 punto decimale tra il 2020 e il 2021).

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