• 26 Novembre 2024 11:37

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Una diversa prospettiva su Darwin e l’evoluzione: il parere di due scienziati

Feb 13, 2023

Il meccanismo della “selezione naturale”, descritto da Charles Darwin nell’Origine delle specie del 1859, è forse il più frainteso tra le idee solidamente radicate nella scienza. Anche da parte di scienziati o medici si ascoltano frasi del tipo “La selezione naturale agisce… al fine di… perché cerca di… per la sopravvivenza della specie…”, ovvero, “la selezione naturale è l’unico motore del cambiamento evolutivo… progetta e costruisce sistemi biologici perfettamente adattati all’ambiente”, etc. Si potrebbe continuare. Queste affermazioni sono prive di senso e consolidano, spesso dall’alto di una cattedra, fraintendimenti di senso comune che ostacolano la comprensione dei processi evolutivi.

 

Darwin è diventato negli ultimi cinquant’anni circa, in alcuni contesti, una sorta di icona laica. Refrattario a partecipare a controversie culturali o politiche delle quali non era competente, si aspettava che la sua articolata teoria, apparentemente semplice, fosse sempre meglio compresa e che diventasse oggetto di sviluppi e usi scientifici, anche in ambiti non strettamente zoologici, ma comunque in modi pertinenti e non pseudoscientifici come il darwinismo sociale. Aveva sperimentato, anche nelle discussioni con colleghi dai quali aveva imparato molto, quanto fosse faticoso per persone pur molto intelligenti capire i suoi argomenti.

 

Il Darwin Day, che si festeggia il 12 febbraio, giorno della nascita, serve a somministrare, dove circolano infettivi pregiudizi contro le spiegazioni evoluzionistiche del divenire della vita e dell’uomo, alcune dosi di razionalità come richiamo. Noi vogliamo però rivolgere l’attenzione ad aspetti meno dibattuti, perché pensiamo che le persone, soprattutto i giovani, non debbano “credere” all’evoluzione, o che siamo animali che discendono da antenati diversamente evoluti, perché lo dicono gli scienziati, ma “capire” l’evoluzione, acquisendo una comprensione critica del modo in cui funzionano i processi biologici e in particolare il meccanismo della selezione naturale. Discuteremo il significato della teoria della selezione naturale e diremo qualcosa sul dibattito in corso da un paio di decenni tra i biologi evoluzionistici sulla necessità o meno di fare un tagliando al modello tradizionale dell’evoluzione biologica. Parleremo poi della produttività scientifica dell’idea darwiniana della selezione naturale, al di là dell’evoluzione biologica, ricordando che il principio darwiniano della selezione ha trovato casa nell’immunologia, nella neurobiologia, nell’oncologia e nell’intelligenza artificiale. Infine, diremo qualcosa sulle cause dei fraintendimenti del concetto di selezione naturale.

 

Il concetto dell’evoluzione

Proviamo a circoscrivere l’ambito della discussione raccontando uno scenario evolutivo più o meno semplificato o schematizzato. Immaginiamo una popolazione di sistemi fisici individuali in grado di replicarsi, cioè di costruire copie di sé stessi, i quali siano caratterizzati da differenze più o meno grandi tra loro, e immaginiamo di voler studiare questa popolazione nel suo insieme, al procedere del tempo. Se le percentuali con cui i diversi replicatori nella popolazione cambiano via via che passa il tempo, diremo che la popolazione evolve, ovvero che cambiano nel tempo la forma o le forme degli individui prevalentemente rappresentati in quella popolazione.

 

È facile capire come l’evoluzione di una popolazione di replicatori, definita nei termini che abbiamo indicato, dipenda dal numero di individui riproduttori che un individuo di quella forma è in grado di produrre, copiando sé stesso. In tutti i casi, cioè, a determinare la composizione di una popolazione nella generazione successiva sarà NON il numero di copie generate da ciascun replicatore, ma il numero di copie di quel replicatore che si trova nel sottoinsieme dei riproduttori della generazione successiva. Un replicatore potrebbe anche lasciare moltissime copie di sé stesso, ma tutte sterili o di vita troppo breve per arrivare a loro volta a replicarsi; sebbene temporaneamente quel replicatore sarà molto rappresentato nella popolazione di una generazione successiva, in quella ancora successiva il suo tipo sparirà.

 

L’evoluzione della popolazione, quindi, è l’evoluzione del sottoinsieme di riproduttori di quella popolazione, ovvero il cambiamento nella percentuale di forme diverse che compongono quel sottoinsieme. Possiamo chiamare la variazione di questa percentuale, mediata su più generazioni per correggere eventuali fluttuazioni casuali, il tasso di successo di un certo tipo di replicatore. Ora, perché mai alcuni replicatori dovrebbero avere maggior successo di altri, cosicché la popolazione studiata evolva arricchendosi nel tempo di quel particolare tipo di individui, invece di altri? Cosa influenza cioè il successo dei replicatori? Vi sono due principali risposte.

 

Innanzitutto, come è ovvio, la capacità di un replicatore di creare un numero elevato di copie di sé stesso, in grado pure esse di replicarsi, è superiormente limitata dal numero di operazioni di copia che un replicatore riesce a fare di sé stesso (nel corso della vita cioè prima che l’entropia abbia la meglio), cioè dal numero di discendenti che riesce a generare. In secondo luogo, dato un certo numero di discendenti generati, conta quanti di questi arriveranno a loro volta in età riproduttiva.

 

Se la popolazione che stiamo studiando è rappresentata solo da replicatori diversi fra loro che creano copie di sé stessi, la sua evoluzione comporterà via via l’arricchimento percentuale di quei tipi che hanno il massimo tasso di successo, dopo di che l’evoluzione cesserà, nel senso che la popolazione resterà stabile nella sua composizione. Tuttavia, come osservò Darwin, i replicatori biologici hanno due caratteristiche fondamentali, che favoriscono un’incessante evoluzione delle loro popolazioni: innanzitutto, non generano copie identiche di sé stessi, e in secondo luogo si replicano in un ambiente che ha profondi effetti sul tasso di successo di ciascuna forma nell’ambito della popolazione – includendo come ambiente anche gli altri replicatori che interagiscono con un tipo dato.

 

A ogni generazione, vi è quindi la possibilità che emerga una nuova forma di maggior successo degli altri (specifichiamolo ancora, successo qui inteso come capacità di essere rappresentato nella successiva generazione di riproduttori, non più alto, più forte, più sano, etc.), e contemporaneamente l’ambiente pone vincoli variabili nel tempo, in modo che aumenti o diminuisca il tasso di successo di questo o quel tipo di replicatori rispetto agli altri nella stessa popolazione.

 

In sostanza, a ogni generazione vi è una fonte di nuova variabilità nei tipi presenti in una popolazione di replicatori, e a ogni generazione si presentano ostacoli ambientali che possono essere identici o diversi da quelli delle generazioni precedenti, e che possono pure variare durante il tempo di vita di una singola generazione. In mancanza di altri vincoli ambientali, la pura competizione (non una lotta fisica!) fra gli individui della stessa popolazione o anche di altre per ottenere le medesime risorse che consentono la replicazione e il successo riproduttivo dei propri discendenti costituisce già un vaglio selettivo che crea condizioni favorevoli per certi individui e sfavorevoli per altri.

 

Darwin chiamò il processo che favorisce certi tipi in una popolazione, per effetto del vaglio ambientale, “selezione naturale”, in analogia al processo con cui allevatori e agricoltori selezionano certi individui con certe caratteristiche che giudicano favorevoli (selezione artificiale). Ma l’analogia, come tutte le analogie, può essere fuorviante se è estesa al di là del suo significato iniziale, che riguarda il processo e i suoi effetti, e non l’esistenza di un agente che lo mette in atto (non importa se umano, divino o di altro tipo). Infatti Darwin solo inizialmente usò l’analogia dell’”Essere infinitamente saggio”, per optare invece su paragoni scientifici tra la selezione naturale e affinità elettive o gravità, probabilmente perché aveva identificato le trappole insite nell’antropomorfizzazione.

 

La selezione darwiniana è l’unico modo di spiegare senza ricorrere ad agenti esterni come l’evoluzione delle popolazioni di organismi viventi possa procedere in maniera incrementale, costruendo fenotipi sempre più specializzati nell’esercitare certe funzioni in determinati ambienti: se un vincolo ambientale dura abbastanza a lungo nel tempo, così che molte generazioni possano esservi esposte, le variazioni che a ogni generazione accrescono casualmente il tasso di successo tramite la modifica di una certa struttura fisica, purché esista un modo di trasmettere quelle variazioni alla successiva generazione, finiscono per accrescere la rappresentazione di quella struttura fisica nella popolazione di replicatori che si sta studiando.

 

Al contempo, variazioni ambientali che rendono svantaggiose le caratteristiche di tipi precedentemente affermatisi in condizioni diverse, portano alla loro sostituzione con altre forme. Si è spesso pensato a questo processo come a una lotta per la sopravvivenza degli individui, ma in realtà esso consiste nel semplice variare delle probabilità di rappresentazione di un certo carattere nella futura generazione di riproduttori; chi perisce prima del tempo certamente non vi sarà rappresentato, ma non è detto che lo sia nemmeno chi sopravvive più a lungo e vive meglio dal punto di vista individuale, se non vi è un meccanismo che traduca tali caratteristiche in una maggiore rappresentazione del proprio tipo fisico nelle popolazioni future.

 

La lotta tra gli organismi è quindi sì per sopravvivere, ma vincere questa lotta non implica affatto che le generazioni future saranno più ricche di nostri discendenti, se altri replicatori meno fortunati dal punto di vista individuale vivono peggio e periscono prima, ma dopo aver generato una maggior prole. L’evoluzione di una popolazione o una specie non è guidata da chi è più adatto all’ambiente, più forte o più intelligente, ma da chi è più adatto o più fortunato nel generare copie fertili di sé stesso in quell’ambiente; e di fatti, come si accorse e spiegò magistralmente già Darwin, meccanismi quali quello della selezione sessuale spingono allo sviluppo persino di caratteri dannosi per il singolo individuo, perché, come accade per la coda del pavone, possono impacciare il movimento e peggiorare le probabilità di sopravvivenza di un maschio, ma migliorarne la rappresentazione in termini di suoi discendenti nella successiva generazione di riproduttori: le code sono diventate per selezione naturale dei segnalatori per le femmine dello stato di salute dei maschi, introducendo un ulteriore livello a cui può aver luogo il gioco probabilistico di investire le risorse riproduttive in modo più vantaggioso.

 

Parallelamente al fenomeno di evoluzione incrementale spiegato da Darwin, le popolazioni evolvono anche attraverso meccanismi stocastici, in conseguenza per esempio di deriva genetica, effetto fondatore o complessi scambi di materiale genetico con popolazioni diversissime di ogni regno vivente, per non parlare degli effetti di subitanee catastrofi di ogni genere; ma mentre questi fenomeni, la cui individuazione e descrizione continua ancora oggi, esauriscono la loro azione in tempi piuttosto brevi e nell’ambito di una o poche generazioni, il meccanismo illustrato da Darwin è l’unico in grado di spiegare quelle che altrimenti parrebbero teleologiche tendenze innate o divine sul lungo periodo. Darwin non ha scoperto l’evoluzione, fenomeno di cui tutti gli osservatori anche antichi erano ben consci; ha descritto sulla base di un’ampia documentazione naturalistica la ragione per cui è possibile disporre gli organismi viventi in una serie che, partendo da quelli più antichi e seguendone la discendenza per intervalli di tempo piuttosto lunghi se misurati rispetto al tempo di esistenza di una generazione, rivela una continua e graduale trasformazione. Di tanto in tanto possono esservi e vi sono salti bruschi e accelerazioni, così come la comparsa di incroci tra esseri anche diversissimi, ma a posteriori resta l’apparenza in questi intervalli di tempo anche lunghissimi di una sequenza fluida, in cui è possibile identificare l’antecedente di ogni elemento e il suo successore, che lo si faccia utilizzando caratteri fenotipici o genetici. Non abbiamo bisogno di nessuna altra spiegazione che trascenda la natura fisica, perché basta la semplice euristica darwiniana per capire come, in presenza di certe proprietà universali dei replicatori biologici e dell’ambiente, sia proprio quello che ci si aspetta di osservare.

 

Il dibattito tra i biologi evoluzionisti sullo stato di salute della teoria dell’evoluzione

La biologia evoluzionistica non è fondata su dogmi o credenze, come una religione o pseudoscienza, che rimangono e devono rimanere, per funzionare, sempre uguali. Le vere scienze cambiano, migliorano, si aggiornano, etc. Così, negli ultimi venti anni circa una corrente, per così dire, di biologi evoluzionisti di una nuova generazione, ha sostenuto che la teoria tradizionale che viene raccontata nei manuali di biologia evoluzionistica, e usata nella ricerca, conosciuta come “sintesi moderna” (sm), andrebbe aggiornata e integrata per costruire una “sintesi estesa” (se). Si sostiene che gli avanzamenti scientifici a tutti i livelli della ricerca biologica, dalle macromolecole agli ecosistemi alla cultura, rendano obsoleta l’idea che solo la selezione naturale, agendo attraverso il cambiamento delle frequenze di geni responsabili, via mutazioni casuali, delle variazioni fenotipiche, possa spiegare gli adattamenti.

 

Sarebbe il momento, dicono gli innovatori, di rendere la teoria dell’evoluzione pluralista, riconoscendo, per esempio, che le configurazioni precedenti delle strutture genomiche e di altri tratti dell’organismo svolgono un ruolo nel generare variazioni evolutive, che la selezione non agisce solo sul fenotipo individuale determinando il cambiamento della frequenza dei geni, ma a diversi livelli dalle molecole alle cellule alle idee culturali (selezione multilivello), che esistono forme di ereditarietà non solo genetica (ma anche epigenetica e culturale), che i processi di sviluppo, e la plasticità che li caratterizza, incanalano i percorsi evolutivi e generano direttamente novità fenotipiche e che gli organismi modificano gli ambienti a cui appartengono, partecipando attivamente alla costruzione di nicchie. L’obiettivo della se è di portare l’evoluzione oltre l’approccio centrato sui geni studiati dalla genetica delle popolazioni suggerendo approcci più centrati sugli organismi e sull’ecologia. Molti di questi processi sono considerati secondari nella causalità evolutiva da chi lavora con la sm, mentre i sostenitori della se chiedono che siano trattati come cause evolutive di prima classe. Per prevenire le critiche di voler scaricare il darwinismo si dice che i nuovi sviluppi non confutano Darwin, ma semmai usano mappe per l’esplorazione del mondo vivente da lui disegnate 150 anni fa, mostrando la straordinaria fertilità del suo pensiero.

 

I processi enfatizzati dalla se non sono negati dalla sm, la quale però non assegna loro, effettivamente, particolare rilevanza esplicativa. Nella misura in cui i sostenitori della se dicono che questa offre spiegazioni migliori, in realtà lo fanno partendo dal presupposto che tale superiorità derivi dalla sua struttura pluralista, dalla sua diversa agenda di problemi e da un crescente numero di prove della rilevanza evolutiva di fatti come i bias dello sviluppo, l’ereditarietà inclusiva e la costruzione di nicchie, anche culturali. Diverse analisi di numerosi casi modello mostrano che alcune spiegazioni fornite dalla se sono davvero migliori di quelle prevalenti nella sm. Per esempio, la se spiega meglio l’evoluzione delle prime piante addomesticate dall’uomo. Ma su altre questioni come l’emergere del trattato falcemico in alcuni gruppi di agricoltori in Africa occidentale, la persistenza della lattasi, etc. non si vede cosa abbia da offrire in più. Oltre che essere pluralisti, nella scienza è utile essere laici.

 

In tutti i casi, la discussione fra i contrapposti fronti non è sull’essenza del modello di evoluzione darwiniana, cioè su quanto abbiamo illustrato in apertura, quanto piuttosto sulla caratterizzazione delle forze che sono in grado di mettere in moto l’evoluzione di una popolazione di replicatori e sui caratteri che sono il substrato in base al quale procede la vagliatura da una generazione all’altra. Chi dunque, da posizioni retrograde spesso di tipo religioso, crede di utilizzare le argomentazioni dei sostenitori della se come contraddizioni della visione darwiniana, fraintende meccanismi e significati su cui si sta svolgendo in realtà il dibattito; ne è un classico esempio l’utilizzo in senso teleologico dei nuovi fatti su cui sta facendo luce l’epigenetica, che sono usati in se per mostrare l’esistenza di un ulteriore supporto fisico e ulteriori meccanismi selettivi di informazione genetica, mentre vengono additati dagli oppositori del darwinismo come la prova di un’inerente fallacia del meccanismo di selezione naturale su varianti casuali di una popolazione. Stendiamo poi un velo pietoso sulle continue affermazioni persino in articoli pubblicati di Nature, ove si afferma che sarebbero stati scoperti meccanismi di ereditarietà lamarckiana, in contrapposizione a quelle darwiniana: sono fesserie per diverse ragioni, ma prima di tutto perché la teoria darwiniana dell’ereditarietà (teoria della pangenesi) era più lamarckiana di Lamarck.

 

Il successo euristico del darwinismo

Darwin scoprì in che modo le specie o popolazioni di organismi possono far fronte o rispondere a situazioni impreviste. Abbiamo descritto sopra la logica del processo evolutivo. La selezione naturale, come abbiamo detto, non è l’unico meccanismo che produce il cambiamento evolutivo, ma è quello che produce costantemente e in modo non casuale un cambiamento adattativo. Pochi anni dopo la pubblicazione dell’Origine delle specie (1859) alcuni embriologi, citologi, immunologi e neurologi (parliamo non di figure secondarie, ma di Wilhelm Roux, August Weissmann, Ilya Metchnikoff, Paul Ehrlich, Santiago Ramon y Cajal) proposero di utilizzare il modello darwiniano anche per spiegare i fenomeni adattativi che si osservano nello sviluppo embrionale, nella risposta immunitaria e nella neurogenesi dell’anatomia del cervello.

 

Quelle intuizioni, se così vogliamo chiamarle, sono state riprese sulla scorta di una scienza di base molto più avanzata e oggi il principio darwiniano della selezione nel mondo biologico è usato in altri contesti dove si tratta di rispondere a situazioni inattese, imparando dall’esperienza, senza naturalmente che le memorie acquisite sia trasmesse ereditariamente. Ovvero anche non siamo necessariamente di fronte a replicatori, per cui si parla in alcuni casi non di “replicazione differenziale”, ma di “amplificazione differenziale” (concetto più inclusivo).

 

Un caso emblematico è l’immunità. I potenziali antigeni naturali sono in numero sterminato e il sistema immunitario non li può conoscere tutti in anticipo. Comincia a costruirsi una memoria nell’infanzia, ma poca cosa rispetto alle continue sfide parassitarie, in particolare virali. La soluzione evolutiva trovata è simile a quella sopra descritta. Viene sintetizzato ed espresso sui linfociti B un repertorio di anticorpi enorme ma finito – viene cioè generata una popolazione immunologicamente molto varia di linfociti B – e quando entra nel corpo un antigene, questo viene intercettato dagli anticorpi agganciati alle cellule che lo riconoscono molecolarmente “meglio”, e così si innesca la replicazione differenziale – ovvero la fase di selezione – di quelle cellule che rispondono, aumentando di numero in circolo e rilasciando proprio gli anticorpi che neutralizzano l’antigene.

 

Il meccanismo è più complicato e il sistema immunitario è una formidabile macchina darwiniana su diversi piani. Tuttavia, questa è la logica, e quando ci vacciniamo “insegniamo” al sistema immunitario a riconoscere una minaccia che non ha mai incontrato prima, usando il principio darwiniano di selezione in una popolazione caratterizzata da una varietà casuale; in altre parole, non è la singola cellula l’oggetto dell’adattamento che permette la risposta immunitaria, ma uno stimolo ambientale che cambia la rappresentazione percentuale di alcune cellule preadattate, già presenti in una popolazione ampia e variegata.

 

Anche la memoria e l’apprendimento fondate sul cervello dipendono da meccanismi selettivi; diverse teorie neurobiologiche spiegano in che modo la complessità del cervello dà luogo all’ordine mentale, assumendo che processi di sviluppo neuroanatomico e la formazione delle sinapsi siano guidati da dinamiche darwiniane o selettive durante la maturazione del cervello e nella morfogenesi delle sinapsi che incanalano i percorsi elettrici e gli scambi neurochimici alla base della memoria e dell’apprendimento.

 

È possibile cioè definire il fenotipo di ciascun neurone in base alla connettività delle sue sinapsi, il quale è oggetto di selezione da parte degli stimoli esterni e interni che continuamente arrivano, stimoli in grado di rinforzare alcune connessioni sinaptiche a svantaggio di altre, portando così alla selezione di popolazione di insiemi connessi di neuroni funzionalmente segregati, integrati in maniera gerarchica con altri insiemi di neuroni in maniera ancora dipendente dalla selezione effettuata dagli stimoli esterni, come prevede ad esempio la teoria del darwinismo neurale del Nobel Gerald Edelman.

 

Nei due esempi precedenti, sebbene la selezione e l’arricchimento dei fenotipi più adatti seguano una logica darwiniana e producano quindi l’adattamento di una popolazione, il numero di generazione di replicatori coinvolti nel processo è limitato (nel caso del sistema immunitario, ove esiste una maturazione immunologica dopo la prima selezione di linfociti) oppure assente (nel caso del cervello, ove le sinapsi sono sì generate e formate di continuo, ma non attraverso un processo di autoreplica). In altri esempi di estensione dell’idea di Charles Darwin, invece, i sistemi descritti sono più propriamente oggetto di evoluzione nel senso che abbiamo specificato in apertura di questo scritto.

 

I tumori, per cominciare, sono in realtà una popolazione di cellule geneticamente e fenotipicamente variabili, che agiscono all’interno di un ambiente selettivo, dovendosi misurare sia con la disponibilità limitata di risorse per la loro replicazione (per questi si vascolarizzano), sia con il contrasto esercitato dal sistema immunitario. Dopodicé sono sottoposti alle pressioni selettive di radioterapie e chemioterapie. La logica darwiniana si adatta perfettamente alla descrizione della loro evoluzione temporale, e questa per l’oncologia di base è un’idea acquisita. Il cancro non sarà mai sconfitto come patologia, per la semplice ragione che il suo sorgere è un evento probabilistico e il suo sviluppo è adattativo in senso darwiniano. Di fatto, grazie alla ricerca migliorerà sempre più la cura della malattia, in particolare cercando di disinnescarne le dinamiche evolutive, impedendo l’angiogenesi o agendo sui processi di destabilizzazione attiva del genoma delle cellule tumorali che generano variabilità genetica e metabolica, invece di affidarsi solo ai trattamenti contro bersagli specifici che possono guidarne la progressione verso l’incurabilità.

 

Il darwinismo è anche alla base dell’intelligenza artificiale più avanzata, dove entra sotto la forma dei cosiddetti algoritmi genetici o evolutivi che usano il principio della selezione per ottimizzare le soluzioni dei problemi che devono trattare enormi quantità di dati. Diverse macchine che implementano procedimenti adattativi basati sul principio di selezione di machine learning e deep learning, si chiamano… “Darwin”. In questo caso, si utilizzano “popolazioni” di codici informatici leggermente diversi fra loro e se ne determina la sopravvivenza in base alla loro efficienza nel risolvere problemi preassegnati; si introducono quindi nuove piccole variazioni (secondo leggi casuali o anche in maniera guidata), ottenendosi una nuova generazione di codici su cui reiterare la procedura. Gli algoritmi genetici trovano decine e decine di applicazioni in campo scientifico, industriale, finanziario, nei videogiochi, etc., proprio in ragione del fatto che il meccanismo di introduzione di varietà e successiva selezione, come Darwin dimostrò, genera risposte adattative, e quindi può essere rivolto alla soluzione efficiente di un gran numero di problemi.

 

La naturale competizione fra darwinismo ed euristiche prescientifiche

Visto il successo del darwinismo in casi come quelli appena citati, e visto il vivo sviluppo ancora in corso, desumibile per esempio dal dibattito fra sm e se, si potrebbe immaginare che tale tipo di euristica scientifica sia ormai accettata senza ostacoli quando si tratti di spiegare i fenomeni che ricadono sotto il suo dominio. In realtà, anche il darwinismo, come qualunque spiegazione scientifica del mondo, deve competere con altri tipi di euristiche, che non sono fondate sul pensiero razionale, ma che hanno garantito la sopravvivenza e il successo della nostra specie fino a oggi.

 

Questo perché, a fini evolutivi non è necessario che una rappresentazione del mondo con valore adattativo sia anche vera. Gli adattamenti, anche cognitivi, devono solo dare un vantaggio riproduttivo nel senso specificato in apertura, per pesare ai fini dell’evoluzione di una specie. Per cui non è sorprendente che, come sottoprodotto della selezione di euristiche utili al successo della nostra specie nell’ambiente in cui si è evoluta, abbiamo accumulato o siamo inclini ad accumulare credenze le più false, In taluni casi, tanto queste credenze quanto le euristiche da cui derivano sono dei bias che ostacolano l’apprendimento della scienza, che del resto fino a tre/quattro secoli fa circa non è mai servita per aumentare le chances di sopravvivenza e riproduzione, meno che mai degli scienziati. Nessuna sorpresa scoprire che la teoria della selezione naturale è controintuitiva, cioè aliena a quei procedimenti cognitivi che attuiamo inconsciamente: noi non arriviamo intuitivamente a capire l’eliocentrismo, la teoria galileiana-newtoniana del moto, la teoria cinetica del calore, la relatività ristretta e generale, il principio di indeterminazione, l’entanglement quantistico, etc.

 

Fra le tante euristiche istintive di cui siamo dotati, qui tratteremo quelle che maggiormente contrastano con la comprensione reale del significato del darwinismo, per aiutare a riconoscere certi tipici difetti di ragionamento che si ritrovano anche nelle dichiarazioni di chi la biologia scientifica dovrebbe conoscerla o di chi ne è un convinto sostenitore, ma non presta dovuta attenzione a evitare istintive ricostruzioni del mondo naturale.

 

Decenni di ricerche condotte, soprattutto in Nordamerica, con studenti di scuole secondarie e università cercando di identificare gli ostacoli epistemologici che si frapponevano all’insegnamento delle materie biologiche, hanno mostrato che noi veniamo al mondo, ovvero ragioniamo naturalmente in termini teleologici o finalistici, essenzialisti e antropocentrici. I primi due ostacoli sono anche quelli che Darwin dovette combattere, inizialmente anche in sé stesso, e che impediscono di capire intuitivamente la sua teoria.

 

Il modo di pensare teleologico è pervasivo nel linguaggio, e Spinoza lo chiamava “asilum ignorantiae”. Spiega le strutture, i processi o i fenomeni biologici facendo riferimento al loro presunto scopo, obiettivo, funzione o risultato. Per esempio, accade spesso di ascoltare scienziati e anche biologi dire che “gli adattamenti servono a promuovere la riproduzione e la continuazione di quella particolare specie”, o che “gli animali si mimetizzano per sfuggire ai predatori”. Per persone digiune di biologia “le piante producono ossigeno perché gli animali possano respirare”, o “i geni si accendono al momento giusto perché una cellula si sviluppi nel modo giusto”, oppure ancora che “il cancro (o un parassita) muta per sopravvivere al farmaco”.

 

Non è una semplificazione linguistica quella che porta a formulare frasi erronee, visto che frasi corrette sono di identica comprensibilità e semplicità linguistica. Il problema è che si cerca la causa di un fenomeno in un ipotetico traguardo utile, mentre invece la giustificazione a posteriori del punto di arrivo va ricercata nel meccanismo selettivo che ha prodotto l’effetto osservabile. Il cancro non muta per resistere a un farmaco: la stragrande parte delle mutazioni in cui incorrono le cellule cancerose sono svantaggiose o ininfluenti, e comportano la morte cellulare.

 

Semplicemente, a causa della particolare instabilità genomica, un cancro muta, e così la probabilità che per puro caso in una popolazione sia presente qualche cellula resistente ad una terapia che uccide tutte le altre cellule è più alta rispetto ad un insieme di cellule che mutano poco. Non vi è bisogno di una spinta intrinseca, come nel lamarckismo, o disegno divino, come nelle religioni, per spiegare l’origine del collo delle giraffe o dell’occhio. Basta dare sufficiente tempo a popolazioni di replicatori. Quindi non è necessario, perché il darwinismo funzioni, attribuire uno scopo particolare al processo evolutivo, operazione questa che trasferirebbe semplicemente una volontà dall’individuo o dalla divinità ad una popolazione o alla “natura”.

 

Tuttavia, credere false cose vere (i nostri errori di tipo II in statistica) è pericoloso, mentre credere vere cose false (errore di tipo I) di norma no. I nostri antenati che credevano che il fruscio nell’erba fosse un pericoloso predatore quando invece era solo il vento, avevano più probabilità di sopravvivere che se avessero creduto che il fruscio nell’erba fosse solo il vento quando invece era un pericoloso predatore. Le pressioni selettive guidate dalla logica di cui sopra hanno probabilmente favorito gli animali più propensi a ritenere che tutti i modelli di spiegazione che prevedano una volontà o un intento come cause iniziali siano reali, cablando nel nostro cervello un finalismo che ritroviamo nel linguaggio persino quando descriviamo il funzionamento di un euristica nata per il rifiuto di tale modo di pensare, ovvero il darwinismo.

 

Come probabile conseguenza della nostra innata teleologia, si giunge ad un altro tipo di euristica che è di ostacolo alla comprensione del darwinismo, ovvero alla credenza che il finalismo che percepiamo nei fenomeni sia in realtà espressione della presenza di agenti dotati di specifica volontà, non immediatamente visibili, che indirizzano lo sviluppo di un dato processo. Si tratti di anime, spiriti, fantasmi, divinità, demoni, angeli, alieni, progettisti intelligenti, cospiratori governativi che infesterebbero il mondo e lo controllerebbero, ma anche di enti studiati dalla scienza, come il genoma, organi quali il cervello o meccanismi come la selezione naturale. Questa “agenticità” presente nel mondo può essere ridotta all’attribuzione di volontà dai tratti umani alle cause di ogni tipo di fenomeno, naturale o meno, di cui si fa esperienza, quando questo fenomeno presenti speciali caratteristiche quali la sua ricorsività, oppure una sua struttura intricata o altri aspetti insoliti. La nostra innata tendenza a cogliere schemi nella realtà, che siano veri o presunti, ci porta a moltiplicare il numero di volontà cui attribuiamo la loro esistenza, cioè ad agentificare il mondo intero. Siccome poi il nostro cervello non possiede un dispositivo per discriminare automaticamente tra credenze false e vere, restiamo spesso preda di illusioni sulla presenza di schemi veri o falsi che siano, creati da volontà ovviamente inesistenti e modellate sulle emozioni e sugli intendimenti umani.

 

Agenticità e antopomorfismo sono di norma strettamente intrecciati: infatti finiamo per dipingerci il tipo di intenti e di volontà degli agenti dotati di fini utilizzando il modello che meglio conosciamo – intenti e modi di agire umani – in quanto ominidi con una corteccia sviluppata, una consapevolezza emotiva e una teoria della mente. Quest’ultima capacità, utile nelle relazioni sociali fra i conspecifici, è stata estesa però come “teoria della mente” degli agenti che immaginiamo alla base di fenomeni notevoli che scorgiamo o crediamo di scorgere – arrivando così ad antropomorfizzare la realtà che ci circonda. Nasce probabilmente in questo modo il pensiero antropocentrico, cioè “la tendenza a ragionare su specie o processi biologici sconosciuti per analogia con l’uomo”, stabilendo paragoni con l’uomo o menzionando il suo comportamento, il suo ruolo o il suo intervento in buon accordo con l’attribuzione inappropriata di caratteristiche umane (o animate) a entità non umane (o inanimate) tipiche dell’antropomorfismo. Così, abbiamo derformazioni del darwinismo in cui l’uomo è il culmine di un processo teleologico che ha interessata l’intera natura, per cui non è previsto che possa estinguersi per esempio a causa di un patogeno: la teleologia e l’antropocentrismo producono una visione quasi religiosa dell’evoluzione, in cui la continua selezione che ha agito sugli organismi precedenti ha prodotto miglioramenti continui fino a noi, a partire da stadi meno “perfezionati” perché più precoci.

 

La separazione fra specie evolutivamente superiori ed altre inferiori, alla base della visione antropocentrica appena illustrata, fa leva su un’altra euristica inconscia, ovvero l’essenzialismo. Il pensiero essenzialista spiega strutture, processi o fenomeni biologici in base all’idea che le proprietà sottostanti causino le caratteristiche esterne e che tali caratteristiche esibite dai membri di qualsiasi categoria biologicamente rilevante – siano esse cellule, specie o tipi di ecosistemi – debbano essere relativamente uniformi, statiche e prevedibili. Il ragionamento essenzialista include un riferimento indiretto a una categoria o a un gruppo biologico che implica l’uniformità rispetto a una proprietà o a un comportamento attraverso un linguaggio generico, del tipo “i gatti mangiano i topi”.

 

Oppure affermazioni come “la natura si trova in un equilibrio delicato, tale che senza cambiamenti drastici imposti artificialmente le comunità ecologiche rimarranno per lo più stabili”. In entrambi i casi, si fa riferimento a categorie astratte, la prima riguardo il comportamento di certi animali e la seconda riguardo alla costituzione e alle qualità delle comunità ecologiche, ipotizzando che esse non solo esistano, ma traendone l’esistenza dal fatto che sono state stabilmente osservate per un certo periodo di tempo in sistemi reali. Si immagina, cioè, che esista stabilmente “la felinità”, così come si immagina che esista una specie dai confini ben definibili chiamata gatto, e si pensa anche che esista per esempio una “foresta tropicale” intesa come entità ben definita e sostanzialmente identica a sé stessa nel tempo. L’essenzialismo, che è l’abbandono del punto di vista linguistico/operativo sulle nostre categorie astratte in favore della loro assunzione a realtà tangibili, è un modo di pensare fuorviante e pericoloso, se si considera che è alla base non solo dell’antropocentrismo, che necessita di definire e separare ontologicamente la specie umana dal resto del mondo naturale, ma anche per esempio del razzismo o dell’avversione agli ogm. Il pensiero darwiniano ha riconosciuto che la realtà biologica non è fatta di specie, razze o essenze platoniche, ma di individui tutti diversi che interagiscono all’interno di popolazioni e con un ambiente continuamente cangiante; quale che sia l’operazione arbitraria che utilizziamo per definire una popolazione, il processo darwiniano è sempre in atto date le condizioni che abbiamo visto, e dunque è insensato andare alla ricerca di essenze dato che non ne esistono.

 

Conclusione

Potremmo sintetizzare il nostro argomento con una frase: “la natura è indifferente a ogni aspettativa, finalità o scopo”. Ma cadremmo così in una volta sola in tutte le trappole linguistiche e concettuali contro cui abbiamo tentato di mettere in guardia il lettore. Un enunciato più corretto sarebbe che “i fenomeni naturali non si svolgono né sono spiegabili in funzione di una aspettativa, nostra o di qualunque altro agente”. Il fatto è che il linguaggio, in quanto specchio del nostro modo di pensare, è naturalmente forgiato per utilizzare le euristiche teleologiche, essenzialiste ed antropocentriche, cioè quanto di meglio era disponibile per la nostra sopravvivenza come specie prima dell’emergere del pensiero scientifico moderno; e persino oggi, in talune condizioni, è possibile, anzi è sicuro che tali euristiche abbiano un superiore valore di sopravvivenza per l’individuo e procurino migliori chance riproduttive rispetto al più accurato metodo con cui la scienza e la filosofia costruiscono i propri enunciati. Ci sono peraltro ampie prove del fatto che molte euristiche, basate sul cosiddetto pensiero veloce o intuitivo, portano a decisioni e risultati quasi coincidenti con quelli ottenuti usando il pensiero lento e l’intelligenza analitica.

 

Nel caso in cui, ai fini della determinazione del nostro agire, un enunciato costruito seguendo euristiche erronee come quello che abbiamo appena formulato non è differente da quello costruito secondo criteri più corretti, la cosa può essere, se correttamente intesa come una convenzione linguistica, addirittura più comoda per ragioni che hanno a che vedere con la compressibilità della comunicazione. Per questo anche gli scienziati continuamente possono cadere nel tipo di errori che abbiamo illustrato.

 

Se però il cuore di una discussione e il suo oggetto specifico ruotano attorno e dipendono da un meccanismo che ha contraddetto per sempre proprio l’utilizzo di quelle euristiche per spiegare certi fatti del mondo naturale, ovvero il meccanismo dell’evoluzione darwiniana, allora è necessario ripulire ogni singola frase usata, per evitare deduzioni ed usi impropri delle nostre parole. Operando in questo modo, cioè parlando da scienziati, quando si vuol utilizzare la scienza in un discorso, e ignorando quegli scienziati che più o meno consapevolmente manipolano l’opinione degli altri aggrappandosi al pensiero prescientifico, è per il resto possibile anche contemplare vette sublimi che sono raggiungibili utilizzando ad altri fini tutte le euristiche distrutte da Darwin. Come dimostra il grande recanatese, che alla Natura faceva dire queste parole:

 

Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi e ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.”

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