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Valore probatorio delle chat, cosa stabilisce la Cassazione

Apr 14, 2018
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La Corte di Cassazione, V Sezione penale, nella Sentenza del 25 ottobre 2017, n. 49016, affronta un tema che sempre più avrà rilievo in un mondo, come quello attuale, in cui la tecnologia è diventata parte integrante nella vita quotidiana delle persone.

Con la pronuncia in oggetto, la Corte si occupa del problema della validità legale e, in particolare, a fini probatori delle conversazioni effettuate e registrate tramite la chat di WhatsApp, arrivando alla conclusione che, sì, ai messaggi scambiati dagli utenti mediante tale piattaforma di messaggistica può essere riconosciuto valore di prova documentale, ma soltanto in presenza di alcune determinate circostanze.

Il caso concreto e la sentenza della Corte

Il caso concreto dal quale è scaturita la pronuncia della Suprema Corte partiva da una denuncia per atti persecutori (il c.d. stalking, fattispecie di reato sanzionata dall’art. 612-bis del Codice Penale, secondo il quale “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita. La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici.

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La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata. Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. La querela è comunque irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all’articolo 612, secondo comma. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio”).

Durante il procedimento, l’avvocato difensore dell’imputato aveva chiesto l’acquisizione, come prova documentale, della trascrizione delle conversazioni intercorse via WhatsApp tra l’imputato stesso e la persona offesa, con lo scopo di dimostrare l’inattendibilità e l’inaffidabilità delle dichiarazioni di quest’ultima.

Il rigetto, da parte della Corte d’Appello, di tale istanza istruttoria e la conseguente impossibilità di acquisire nel procedimento tali conversazioni è stato pertanto posto dal difensore dell’imputato tra i motivi a fondamento del ricorso presentato alla Corte di Cassazione avverso la sentenza di secondo grado, che, condannandolo per il reato di atti persecutori, confermava la precedente sentenza del Tribunale a suo danno. Secondo la difesa, infatti, gli effettivi rapporti intercorsi tra la persona offesa e l’imputato sarebbero potuti emergere palesemente e semplicemente dalle trascrizioni della chat.

La Cassazione, chiamata così a pronunciarsi sulla questione, ha tuttavia dichiarato infondato il motivo di ricorso e ha confermato la decisione del giudice di secondo grado, ritendendo, in particolare, corretto il rifiuto del deposito della trascrizione dei messaggi scambiati via WhatsApp. La Suprema Corte difatti ha stabilito che “È legittimo il provvedimento con cui il giudice di merito rigetta l’istanza di acquisizione della trascrizione di conversazioni, effettuate via ‘WhatsApp’ e registrate da uno degli interlocutori, in quanto, pur concretandosi essa nella memorizzazione di un fatto storico, costituente prova documentale, ex art. 234 cod. proc. pen., la sua utilizzabilità è, tuttavia, condizionata all’acquisizione del supporto telematico o figurativo contenente la relativa registrazione, al fine di verificare l’affidabilità, la provenienza e l’attendibilità del contenuto di dette conversazioni”.

Questa decisione si fonda sulle seguenti considerazioni: da un lato, la Cassazione riconosce ed ammette astrattamente che la conservazione delle chat di Whatsapp effettuata da uno dei partecipanti alla conversazione è una forma di registrazione e di documentazione di un fatto storico e che, per questo motivo, può, in linea di massima, essere validamente acquisita in processo come prova documentale. L’art. 234 del Codice di Procedura Penale infatti stabilisce, al comma 1, che “È consentita l’acquisizione di scritti o di altri documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo”.

Dall’altro lato, però, la Suprema Corte evidenzia che la validità probatoria della trascrizione degli scambi di messaggistica è concretamente subordinata al ricorrere di un requisito particolare, ossia all’acquisizione processuale anche del supporto telematico o figurativo contenente la conversazione (in questo caso, il telefono cellulare).

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La sola trascrizione del contenuto delle conservazioni rappresenta, infatti, per la Cassazione uno strumento con funzione unicamente “riproduttiva del contenuto della principale prova documentale”, mentre è di fondamentale importanza, come emerge dai motivi posti a sostegno della decisione, la possibilità di verificare, oltre al contenuto, anche l’affidabilità della prova. E ciò può essere effettuato attraverso l’esame diretto del supporto che contiene tale memorizzazione di fatti così da verificare tanto la riconducibilità dei messaggi al loro effettivo autore e mittente, quanto l’attendibilità intrinseca del loro contenuto.

L’acquisizione delle prove informatiche

Nella sentenza in oggetto la Corte di Cassazione, peraltro, non specifica con quale modalità i messaggi scambiati via WhatsApp possano essere concretamente acquisiti in giudizio a fini probatori.

A tale riguardo, sarà necessario fare riferimento alle disposizioni dettate in materia dalla L. 48/2008, con cui è stata ratificata in Italia la Convenzione di Budapest del 23 novembre 2001 in materia di criminalità informatica, e che -tra le altre cose- ha apportato delle importanti modifiche al Codice di Procedura Penale. Ad esempio, in tema di ispezioni, è stato previsto che “L’autorità giudiziaria può disporre rilievi segnaletici, descrittivi e fotografici e ogni altra operazione tecnica, anche in relazione a sistemi informatici o telematici, adottando misure tecniche dirette ad assicurare la conservazione dei dati originali e ad impedirne l’alterazione” (art. 244, co. 2, cpp).

A seguito di tali novelle legislative, quindi, con l’espressione “prova informatica” si fa ufficialmente riferimento a qualunque informazione che può integrare un elemento di prova e che sia memorizzata o trasmessa in un formato digitale.

Nel caso in cui sia necessaria l’acquisizione al processo di una prova di questo tipo sarà quindi necessario avvalersi di tecniche specifiche fondate sui principi di inalterabilità della prova e conformità con l’originale sanciti in generale dalla L. 48/2008 sopra citata.

In presenza di una prova informatica da acquisire in processo sarà dunque necessario adottare delle misure tecniche che consentano di assicurarne la conservazione e di impedirne l’alterazione. In aggiunta a ciò, se possibile, si dovrà procedere anche alla duplicazione del contenuto digitale su adeguati supporti, attraverso una procedura che permetta di assicurare la corrispondenza della copia all’originale, nonché la sua immodificabilità nel tempo.

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Conclusioni

La decisione della Cassazione appare senza dubbio condivisibile anzitutto perché intende assicurare il più alto livello di certezza contenutistica dei messaggi scambiati via chat, tenendo nella giusta considerazione l’elevata fragilità che caratterizza le prove processuali digitali, le quali potrebbero essere facilmente alterate, compromesse o danneggiate e persino create dal nulla.

In secondo luogo, e in generale, la sentenza appare particolarmente interessante in quanto testimonia il possesso, da parte dei giudici della Corte, di una sensibilità e un’attenzione alla tematica del valore probatorio dei contenuti digitali quanto mai attuale. Mai come ora, infatti, la tecnologia costituisce uno strumento di uso comune in moltissimi settori della vita quotidiana e che presenta di conseguenza risvolti anche in ambito giudiziario dei quali è opportuno tenere conto. Dalla corretta riproduzione e presentazione di tali tipologie di prove documentali, il cui contenuto può essere determinante, può facilmente dipendere infatti l’esito di un intero procedimento giudiziario.

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