Mentre la vaccinazione contro il Covid-19 in Europa stenta a decollare, frenata dai ritardi nelle consegne e da battute d’arresto come nel recente caso di AstraZeneca, in un piccolo stato sull’altra sponda del Mediterraneo le cose hanno preso tutt’altra piega. Israele, 34esima economia del mondo, con una popolazione inferiore a quella della Lombardia, prosegue con ineguagliata efficienza la sua corsa verso l’immunità di gregge. Forte di una contrattazione con le case farmaceutiche chiusa in tempi record, il paese dispone di una grande quantità di vaccini sul totale della popolazione. Chiave del successo negoziale è stato l’accordo sulla sperimentazione con l’americana Pfizer che, a fronte dell’accesso a una mole considerevole di dati, ha concesso un numero ingente di dosi. Vaccini in cambio di conoscenza! Si è soliti dire che i dati siano il nuovo petrolio: la pandemia ci presenta ora un caso eclatante. I risultati che sta ottenendo Israele non possono essere attribuiti a condizioni fortuite che l’hanno avvantaggiato, né trovano spiegazione meramente in termini medico-sanitari. Vanno invece cercate nella stretta e virtuosa collaborazione tra politica e mondo della ricerca, anche in ambiti solo apparentemente distanti come le scienze comportamentali, capaci di fornire soluzioni innovative in scenari mai affrontati prima.
Un laboratorio a cielo aperto
A circa tre mesi dall’inizio della vaccinazione, i dati forniti dall’Università di Oxford parlano chiaro: in Israele la metà della popolazione ha già ottenuto una copertura vaccinale completa, mentre l’Italia e i paesi dell’Unione Europea si attestano a un misero 3,5 per cento. Eppure non basta disporre di vaccini in quantità per ottenere in così breve tempo i risultati straordinari di Israele. Lo precisa una ricerca appena pubblicata su Nature Reviews Immunology (“Signals of hope: gauging the impact of a rapid national vaccination campaign”): l’impatto della campagna vaccinale sulla popolazione nel suo complesso dipende sì dalla percentuale di copertura sul totale degli abitanti, ma anche dalla distribuzione del vaccino tra diverse categorie e dagli effetti dell’interazione sociale tra le diverse fasce d’età sulla trasmissione della malattia. Anche i contagi in forte diminuzione non sono di per sé un’indicazione univoca e sufficiente per decretare l’efficacia della vaccinazione.
Sappiamo infatti che il distanziamento sociale può abbattere la curva dei contagi e il governo israeliano ha imposto un terzo lockdown proprio nelle prime settimane in cui è iniziata la somministrazione di massa. Per capire se i vaccini stanno esercitando l’effetto desiderato su larga scala, pertanto, occorre confrontare la tendenza dei contagi e dei ricoveri suddivisa per fascia d’età. In Israele la popolazione sopra i sessant’anni conta attualmente un tasso di immunizzati superiore all’80 per cento, mentre nella fascia di popolazione che va dai 16 ai 59 anni le persone che hanno già ricevuto entrambe le dosi del vaccino sono solo circa il 20 per cento. La maggiore prevalenza di vaccinati tra i più anziani mostra inequivocabilmente il suo impatto: prima dell’inizio della campagna vaccinale la prevalenza dei contagi nelle diverse fasce era molto simile e i ricoveri interessavano maggiormente i più anziani, mentre ora la percentuale di over 60 che si ammala cala più velocemente che tra i giovani. Al punto che da inizio febbraio i ricoveri dei giovani superano stabilmente quelli dei più anziani.
Un’ulteriore prova dell’efficacia della vaccinazione si può osservare tramite un confronto a livello regionale. Come in Italia, anche in Israele le diverse regioni si sono attivate più o meno velocemente. Questo ha permesso di confrontare gruppi di persone della stessa età cha hanno ricevuto il vaccino in tempi diversi, per constare che sia i giovani sia gli anziani che vivono nelle regioni che hanno iniziato prima la vaccinazione hanno registrato percentuali minori di contagio e di ospedalizzazione. Da queste prime analisi sui dati si evince come Israele sia diventato un vero e proprio laboratorio a cielo aperto, in cui le proposte dei ricercatori hanno trovato spazio di applicazione nelle politiche messe in atto su più livelli. Si consideri per esempio la sfida che Israele si trova ora ad affrontare nell’ultima fase della campagna di vaccinazione. L’allargamento della platea con la possibilità di vaccinare anche le fasce più giovani della popolazione si accompagna alla maggiore riluttanza dei giovani a vaccinarsi. Per questa parte della popolazione, infatti, la minor incidenza di casi gravi e l’inferiore mortalità rende i benefici diretti derivanti dalla protezione contro il Covid-19 meno salienti. Allo stesso tempo i benefici indiretti – seppure rilevanti – come la protezione delle categorie più vulnerabili, rischiano di non aver abbastanza forza per orientare la scelta nella giusta direzione.
Che fare? L’uso delle scienze comportamentali
Il problema configura – in termini economici – un classico public goods game. Nel gioco dei beni pubblici un gruppo di persone deve decidere individualmente come allocare le proprie risorse. Ogni giocatore può decidere se investire parte del suo denaro nel bene comune. Le somme destinate alla collettività vengono moltiplicate per rappresentare la creazione di valore sociale, per poi essere redistribuite in egual misura tra i partecipanti a prescindere dal loro contributo. Benché lo scenario più vantaggioso a livello sociale sia quello in cui tutti contribuiscono, per ogni singolo giocatore è egoisticamente più conveniente non investire nel bene comune, risparmiando le proprie risorse pur beneficiando dalla contribuzione alla collettività degli altri giocatori. Riportando il “gioco” alla realtà della pandemia, l’immunità di gregge è il bene comune e la scelta individuale di vaccinarsi è il contributo a esso. Il rischio concreto è che molti giovani si comportino da free rider, ovvero che non contribuiscano al bene collettivo, sottraendosi egoisticamente al “costo” di vaccinarsi, sapendo che beneficerebbero comunque dell’immunità di gregge se a vaccinarsi fossero tutti gli altri.
Per ovviare a questo e altri problemi che coinvolgono le decisioni dei singoli cittadini, Israele ha messo in campo una task force di esperti di scienze comportamentali provenienti dal modo della ricerca privata – come Google e Facebook – e figure di spicco del mondo accademico come Dan Ariely, docente alla Duke University annoverato tra gli scienziati cognitivi più influenti al mondo. La collaborazione tra i ricercatori e il ministero della Salute ha portato alla creazione di un sistema di incentivi (non monetari, si veda il nostro articolo su il Foglio del 30 dicembre 2020), che fanno principalmente leva sull’allentamento delle restrizioni sociali – queste sì, estremamente salienti – per convincere i giovani a vaccinarsi. “Green pass”, questo il nome dell’iniziativa, permette l’accesso per gli individui immunizzati a eventi sociali, culturali e sportivi, così come a palestre, hotel e ristoranti. Il green pass – il lasciapassare su carta e smartphone – garantisce inoltre l’esenzione dalla quarantena (la necessità di isolarsi per 10 giorni dopo il contatto con un caso confermato di Covid-19 o al ritorno da un viaggio internazionale).
Anche tra coloro già intenzionati a vaccinarsi, gli incentivi potrebbero rivelarsi il pungolo giusto per superare la pericolosa tendenza giovanile a procrastinare, che spesso sta dietro al fallimento di tradurre le buone intenzioni in azioni concrete. Infine, e più in generale, nel tentativo di semplificare al massimo l’atto di vaccinarsi il ministero della Salute israeliano si è adoperato con ingegno, creatività e pragmatismo affinché ogni possibile ostacolo sia rimosso: per esempio, garantendo l’apertura dei centri di vaccinazione durante la notte, eliminando la necessità di pre-registrarsi, e addirittura istituendo centri per la vaccinazione nelle riserve naturali durante i fine settimana e offrendo piccole ricompense come bevande e pasti gratuiti. L’impegno intrapreso nel comprendere le caratteristiche della scelta, incluse le principali barriere pratiche e motivazionali che i cittadini devono affrontare per vaccinarsi, sta permettendo a Israele di creare ambienti decisionali in cui sarà sempre più facile fare la cosa giusta col minimo sforzo.
Matteo Motterlini e Piero Ronzani,
Centro di Ricerca di Epistemologia Sperimentale e Applicata, Università Vita-Salute San Raffaele