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Giacinto Facchetti: il nero e l’azzurro

Lug 18, 2019

Oggi puoi ancora sentire la sua voce. Puoi ancora ascoltarlo “parlare piano, anche adesso, adesso che è lontano”, come cantava Gaetano Curreri. È sufficiente mettersi davanti una sua immagine, e puoi ancora farti avvolgere da Giacinto Facchetti. Dal suo tono caldo e affettuoso, insieme a quegli occhi che non sai mai di quanta dolcezza fossero capaci. Mai una parola fuori posto, mai sopra le righe. Figlio di una generazione cresciuta nell’immediato dopoguerra, che ha imparato a rimboccarsi le maniche e a ripartire con umiltà e sacrificio. Proprio le doti che Giacinto metteva in campo, e che lo hanno fatto diventare Facchetti.

Il giovane corridore

Per lui un numero. Il 3. E due colori. Il nero e l’azzurro. Inter e nazionale italiana. Ci vuole arrivare al grande calcio, il piccolo Giacinto, sin da quando da bambino gioca all’oratorio della sua Treviglio. Con i dilettanti della Trevigliese è schierato attaccante, ma lui sosteneva che no, non era vero, solo una leggenda, era già un difensore, ma amava spingersi in avanti. È un vizio che non perderà mai. Fare gol e correre. Quanto correva, Giacinto. Papà Felice e mamma Elvira avevano messo su un tale marcantonio, con quelle gambe lunghe. Nel ’58 corre gli 80 metri in 9’’ ai campionati provinciali studenteschi. I dirigenti della Federatletica provano a convincerlo a lasciare il calcio. «Vieni da noi, Giacinto, diventa un corridore. Basta il calcio. Hai pure fatto il provino con il Milan e ti hanno bocciato». Macché. Di lì a due mesi lo nota Giuseppe Meazza, che lo porta all’Inter. E il provino è superato.

La magia di Herrera

«Come ti chiami? Da domani ti alleni con noi». È Helenio Herrera a rivolgersi così al giovanissimo Facchetti. È il marzo 1961, il tecnico franco-argentino voluto fortemente dal presidente Angelo Moratti nota da subito qualcosa in lui. A maggio il debutto assoluto in prima squadra nella semifinale di Coppa delle Fiere con il Birmingham, diciotto giorni dopo, il 21 maggio, la prima in campionato, in una vittoria all’Olimpico contro la Roma. Herrera, un po’ apposta un po’ per sbaglio, lo chiama Cipelletti, e “Cipe” è il soprannome che nessuno gli toglierà più. Il Mago sa che Facchetti è un difensore atipico per l’epoca: le sue lunghe leve gli permettono di sprintare in avanti con naturalezza, e il gol per lui non è un’eventualità, ma una probabilità. L’allenatore non sopprime la sua indole. La esalta. Lo schiera terzino, ma è l’ala aggiunta dell’attacco di un’Inter che da anonima sta per diventare Grande.

Sarti, Burgnich, Facchetti…

Il 3 con la maglia nerazzurra riesce a schiacciare la pressione di San Siro così come l’Inter schiaccia qualsiasi avversario in Italia, in Europa, nel mondo. È l’Inter della filastrocca Sarti, Burgnich, Facchetti, che conoscono a memoria anche i tifosi delle altre squadre. Che vince scudetti e coppe internazionali. Il giovane Giacinto che giocava all’oratorio di Treviglio è diventato Facchetti. Corre, segna (tanto), vince. Anche il contorno è dei migliori. Nel ’65 solo Eusebio gli vieta di alzare al cielo il Pallone d’Oro, e due anni dopo sposa l’amata Giovanna. Manca poco alla conquista di un trofeo anche con la nazionale.

Giacinto azzurro

Perché se sei leader dello spogliatoio della più forte squadra italiana, lo sei anche della nazionale. Condottiero e capitano. Un rapporto tormentato con il ct Fabbri non gli permette di giocare un buon Mondiale nel 1966, il primo di tre. Nel torneo inglese, contro l’Urss, uno scatenato Igor Cislenko lo fa impazzire su quella fascia, uno dei pochissimi ad averlo messo veramente in difficoltà. Insomma, quel russo con la maglia numero 7 sulla destra fa quello che vuole e segna pure il gol decisivo per la vittoria dei sovietici. Ci sono tutti gli ingredienti per far sì che tra i due nasca l’odio. Diventeranno amici per la pelle. Ogni anno infatti Facchetti prenderà un aereo per Mosca e lo andrà a trovare. Non può però fare a meno di notare che il buon vecchio Igor ha sempre una bottiglia di vodka in mano. Non gli dirà mai niente. A cosa servirebbe? La voglia di condividere è più importante. Gli rimarrà legato, a Cislenko, fino al 1994, quando una cirrosi epatica se lo porterà via. È questo, Facchetti. È il capitano che agli Europei del ’68 vince il famoso sorteggio della monetina che elimina l’Urss e che dopo la vittoria contro la Jugoslavia alza al cielo l’unico trofeo continentale degli Azzurri. Porta la fascia al braccio anche a Messico ’70, ed è il primo ad andare in camera del milanista Lodetti, avversario di tanti derby, quando il ct Valcareggi lo rispedisce in Italia per far posto a un attaccante in più in rosa. Non gli dice niente, sa che non serve. Come per Cislenko. Ci sono momenti in cui le parole contano, se poche ma efficaci. «Giovanni, per qualsiasi cosa, io sono qui».

Una persona perbene

Ed è sempre lì, sulla fascia sinistra, fino al 1978, l’anno del ritiro. Rimarrà sempre legato al mondo Inter, da dirigente fino a presidente, portavoce dei colori nerazzurri, testimone di un modo di vivere il calcio tutto suo. Onesto, leale, corretto. Rispettato da tutti per la sua rettitudine morale, per la capacità di trasmettere i princìpi giusti a chi gli stava attorno. Una persona perbene, in un mondo in cui spesso l’essere buoni viene confuso con l’ingenuità.

Cambiasso, Madrid, 2010

Quando il 4 settembre 2006 decide di assentarsi definitivamente dal nostro mondo, la notizia scuote l’universo del calcio. Cinque giorni dopo, l’Inter debutta in campionato al Franchi di Firenze. Javier Zanetti indossa una fascia particolare: “Tu sei tutto quello che un uomo dovrebbe essere”. Ma a prendersi la scena è Esteban Cambiasso, autore di una doppietta. È uno dei grandi protagonisti di un’Inter nuova, bella e Grande come quella di Herrera e Facchetti. Che raggiunge la sua vetta più alta la sera del 22 maggio 2010. A fine partita, è proprio Cambiasso a togliersi la sua 19 e a infilarsi una casacca nerazzurra degli anni Sessanta. Ha il 3 stampato dietro. Giacinto è presente nella notte di Madrid. Puoi ancora sentire la sua voce.

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– : Oggi puoi ancora sentire la sua voce. Ascoltare il suo tono affettuoso, insieme a quegli occhi che non sai mai di quanta dolcezza fossero capaci. Era così, Giacinto Facchetti. Figlio di una generazione cresciuta nell’immediato dopoguerra, che ha imparato a rimboccarsi le maniche e a ripartire con umiltà e sacrificio. Proprio le doti che metteva in campo. Per lui un numero. Il 3. E due colori. Il nero e l’azzurro. Inter e nazionale italiana. Il Mago Herrera lo plasma in nerazzurro, facendolo diventare il terzino goleador per eccellenza. A Milano vince scudetti e coppe internazionali, in azzurro è leader, vince gli Europei ’68 da capitano e gioca tre mondiali. Portavoce di un calcio onesto e leale, rispettato da tutti per la sua rettitudine morale e la capacità di trasmettere i princìpi giusti a chi gli stava attorno. Una persona per bene, capace di condividere affetti anche con chi in campo era stato acerrimo avversario. Se ne va il 4 settembre 2006, lasciando un vuoto incolmabile, nello stesso periodo in cui sta per nascere un’Inter fortissima, che tocca il suo apice la sera del 22 maggio 2010. A fine partita, con la Champions League in mano, Esteban Cambiasso si toglie la sua 19 e s’infila una maglia nerazzurra degli anni Sessanta. Ha il 3 stampato dietro. Giacinto è presente nella notte di Madrid. Puoi ancora sentire la sua voce. Facchetti nasceva il 18 luglio di 77 anni fa: la sua numero 3 nerazzurra rimarrà per sempre una maglia immortale. #amodonostro#ilcuoio#giacintofacchetti#facchetti#inter#legend#fcinter#story#fcinternazionale#internazionale#italia#azzurri#italy#seriea#serieatim#nazionale#calcio#vintage#anni60#anni70#football#photography#inter1908#milano#sansiro#meazza#3#championsleague#ucl#onthisday

Un post condiviso da (@ilcuoio) in data: 17 Lug 2019 alle ore 11:51 PDT

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