Un ragazzo del ’99, al fronte contro gli austriaci, teneva un diario di guerra. Ed è da quel diario che scopriamo un’altra guerra che gli toccò combattere, contro una pandemia che si era diffusa per mezzo mondo e che poi abbiamo chiamato Spagnola e abbiamo scoperto essere dovuta a un virus a Rna, e non a un batterio, come si credette in un primo momento. Quanto scrive ha carattere universale, e ricorda molto, molto da vicino l’esperienza di tanti, troppi in questa nuova pandemia, ancora una volta intenti a combattere contro un virus a Rna prima ignoto, ancora una volta negli ospedali e ancora una volta a morire soli. Proprio questo valore universale racchiuso in poche pagine del diario di quel ragazzo di oltre un secolo fa mi spinge a riproporre al lettore le righe con cui descrive quanto gli accadde alla fine del 1918.
“12 ottobre. Mi sveglio la mattina pieno di dolori e con un freddo fortissimo. Vado a pigliare calore vicino alla stufa. Mi danno il rancio, ma mi disgusta. Mi mettono il termometro: 39 e mezzo.” E poi: “Ho una paura indemoniata che sia Spagnola. Mi conducono col carro della spesa a Bovolone, e di lì all’ospedale, dove mi visita un tenente medico. Spagnola. Il termometro sale a 40, 40 e 5, 40 e 9. Polmonite. Il mio stato s’aggrava, il capitano medico non tiene più speranza. Il terzo giorno vuol fare il telegramma urgente ai miei per farmi salutare prima del gran viaggio; io lo prego di non farlo. Peggioro, comincia il delirio. Mi fanno fare i sacramenti. Non voglio morire”. E poi: “Muore il mio compagno di destra. Lo portano via in barella. Assisto a tutto lo spettacolo, credendo che lo stessero facendo a me. Mi pizzico, mi sporgo dal letto… No, hanno preso realmente l’altro. Li vedo riavvicinarsi con la barella, credo che vengano a prendere me; m’immagino d’essere chiuso vivo in una bara, mi sento perduto… E grido. No, no, sono ancora vivo, non prendetemi”.
“Sento parlare dopo del tempo; un giorno, due giorni? Chissà! È il capitano che dice all’infermiere che non c’è nulla da fare per me, che forse non vedrò l’alba”. “Dio mio, sentire tutto, e rimanere così, senza poter far niente, senza potermi ribellare contro la morte. E l’alba si avvicina. E cerco di rassegnarmi, e prego e piango. Sono le sei, suonano le sette e sono ancora in vita. Perché?”.
Quindi, più avanti, leggiamo di cure: inefficaci e anche pericolose, ma cure alle quali, se la si scampa, ci si può convincere di dovere la vita. “Richiudo gli occhi e aspetto. Penso alla mia cara famiglia, che mi credono ora al sicuro, e invece… È orribile, è atroce il mio strazio. Mario! [era il fratello] Perché non mi aiuti? E’ questo sento dire vicino a me. Apro gli occhi, e vedo un colonnello col capitano. ‘E facciamolo il salasso’. È il Colonnello che parla. Ma come, penso, neanche morire in pace si può sotto le armi?”. “E quel poveretto veniva invece a salvarmi. Mi scoprirono il braccio destro, e con un bisturi mi aprirono una vena nella piegatura. Neanche una goccia di sangue: ha visto signor colonnello? Apriamogliene un’altra. Altro colpo di bisturi. Timida, dalla ferita, si affaccia una goccia di sangue che sembra inchiostro, resta per pochi momenti sul braccio, e quindi cade in una catinella messa positivamente per raccoglierla; ne segue un’altra, un’altra, finché non esce a zampillo il sangue riempiendo a metà il recipiente (più di mezzo litro). Stanno per richiudere la vena, quando comincia a girare tutto intorno a me, sento un sordiglino all’orecchio che diventa sempre più forte e insistente, comincio a vedere ombrato e svengo. Resto svenuto un paio d’ore. Nel risvegliarmi, mi sento alquanto meglio: mi mettono il termometro, e segna ancora più di 40. La mattina appresso 39, mi visita il capitano, e mi trova molto migliorato, dicendomi che ora spera nella guarigione. La sera 38 e mezzo, poi 38; mi dicono che sono fuori pericolo, grazie al salasso”.
Per tutta la vita – durata fino a 92 anni – quel ragazzo del ’99 resterà convinto di essere stato salvato da un salasso; e con lui buona parte della sua famiglia e degli amici. È proprio questo il potere dell’esperienza personale, è proprio questo che è difficile combattere quando ci si convince di essere guariti grazie all’ivermectina, all’idrossiclorochina, allo zinco e alla vitamina C: senza salasso, il ragazzo alla mia destra è morto; io, grazie al salasso del colonnello, sono vivo; non venite a raccontarmi di studi, di parole, di dati. Così, probabilmente, avrebbe risposto a me l’artigliere Francesco Di Peppo, cugino primo della mia bisnonna; e, a quanto vedo ogni giorno, le cose in oltre un secolo non sono cambiate.