AGI – Se YouTube, come molte altre piattaforme di social media, ha impiegato anni per contrastare la disinformazione online dopo le elezioni del 2016, assumendo esperti di politica e moderatori di contenuti, investendo in tecnologia per limitare la portata di false narrazioni, “ora ha smesso di farlo”, scrive il New York Times. E sembra che sia un fenomeno diffuso tra i grandi player. Hanno abbassata la guardia.
Tant’è che il mese scorso, stando al resoconto del giornale, Google “ha ridotto silenziosamente il suo piccolo team di esperti di policy incaricati di gestire la disinformazione”. Motivo? “I tagli”. Che per Alphabet, la società capogruppo di Google, hanno raggiunto quota 12 mila. Al punto tale, secondo indiscrezioni in possesso del quotidiano, da lasciare “solo una persona responsabile della politica di disinformazione in tutto il mondo”. Possibile?
Scrive il quotidiano che “i tagli riflettono una tendenza in tutto il settore che minaccia di annullare molte delle tutele che le piattaforme di social media hanno messo in atto negli ultimi anni per vietare o reprimere la disinformazione”, dalla pandemia alla guerra russa in Ucraina alle elezioni in tutto il mondo. Dinanzi alla sfavorevole congiuntura economica e a pressioni politiche e legali, i giganti dei social media “hanno dimostrato che combattere le false informazioni online non è più una priorità”, sollevando però allo stesso tempo i timori degli esperti che seguono la materia. Ciò intaccherà ulteriormente la fiducia verso l’online?
“Non direi che la guerra è finita, ma penso che abbiamo perso battaglie chiave”, risponde alla domanda Angelo Carusone, presidente dell’organismo di controllo dei media liberali Media Matters for America, “e penso anche che noi, come società, abbiamo perso il gusto di continuare a combattere. E questo significa che perderemo la guerra”.
Le aziende dei media, tuttavia, sostengono di tener dritta la barra, ma è pur vero che gli sforzi per combattere le informazioni false e fuorvianti online “sono svaniti in un momento in cui il problema della disinformazione rimane più cruento che mai”, scrive il New York Times, specie dinanzi al proliferare di siti alternativi diventati competitivi per gli utenti. Una prova? Non è forse un caso, scrive il giornale Usa, che proprio giovedì scorso Meta abbia “ripristinato gli account dell’ex presidente Donald J. Trump su Facebook e Instagram, appena due anni dopo averlo sospeso per incitamento alla violenza prima dell’assalto al Campidoglio”.
Quanto a YouTube, la riduzione del personale a gennaio non è stata così drastica, tuttavia si è rivelata significativa “per i piccoli team incaricati di definire e perfezionare le norme della piattaforma”. Così YouTube “ha licenziato due dei suoi cinque esperti di disinformazione, incluso il manager principale, lasciando solo una persona per la disinformazione politica e due per sorvegliare la disinformazione medica”, riferisce il giornale citando fonti anonime.
Secondo Nora Benavidez, consulente senior presso Free Press, un gruppo di difesa dei diritti digitali e della responsabilità, “la moderazione dei contenuti però fa bene agli affari e fa bene alla democrazia” ma “le aziende non lo fanno perché inclini a pensare di non avere un ruolo sufficientemente importante da svolgere, quindi stanno voltando le spalle alla sicurezza”.