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Tre partigiani e un mitra. Nessuna verità su chi uccise Mussolini

Apr 24, 2021

Benito Mussolini non fu ucciso il 25 aprile, ma tre giorni dopo, nei pressi di Bonzanigo, sul Lago di Como. Celebriamo il 25 aprile perché è in quel giorno che il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (Clnai) ordina l’insurrezione di Milano e assume i poteri civili e militari “in nome del popolo italiano”, tuttavia nel pomeriggio del 25 il Duce non accetta la resa incondizionata e anche se privo di un vero piano sceglie di lasciare il capoluogo lombardo insieme ai gerarchi e agli ultimi seguaci. La mattina del 27 la 52° Brigata Garibaldi “Luigi Clerici” intercetta Mussolini tra Musso e Dongo, camuffato all’interno di una colonna tedesca diretta verso il confine svizzero. Dal comune di Dongo viene trasferito nella caserma della Guardia di Finanza di Germasino, e da lì, insieme all’amante Claretta Petacci, in un’abitazione privata nei pressi di Bonzanigo, dove trascorre l’ultima notte della sua vita.

 

In settantasei anni di diatriba politica e studi storici, sulle ultime ore di Mussolini sono stati versati fiumi di inchiostro. Quello che è certo è che sebbene le clausole dell’Armistizio prevedessero la consegna del dittatore agli Alleati la volontà unanime del Clnai fu di non affidarlo al giudizio di un tribunale straniero; scendendo nei dettagli però le certezze vacillano e anche le teorie meno credibili finiscono per porre domande sensate alle stranezze della versione ufficiale che si stratifica nel Dopoguerra. E’ indicativo che la più recente “Storia della Resistenza”, scritta da Marcello Flores e Mimmo Franzinelli per i tipi di Laterza (2019), preferisca non attribuire un’identità precisa ai partigiani che eseguirono la sentenza: “Sta di fatto – vanno al sodo i due storici – che la sventagliata di mitra che nel pomeriggio del 28 aprile lo uccide è l’esecuzione della condanna a morte pronunciata dal Comitato di Liberazione Nazionale e ribadita in svariate occasioni”.

 

 

Insomma la scelta storica, politica e morale è attribuibile alla Resistenza, ma l’esecutore materiale ha il profilo di un mitra. Di questo conosciamo gli estremi tecnici sin dal 1945 (un Mas modello 1938, matricola 20830, calibro 7,65), particolari su cui concordano testimonianze anche divergenti. L’ho scoperto studiando a Tirana, perché quel mitra è conservato là, nel Museo nazionale d’Albania. Ci arrivò nel novembre del 1957, nel bagaglio diplomatico dall’ambasciatore albanese a Roma Edip Çuçi, per volontà dell’allora deputato comunista Walter Audisio: il “colonnello Valerio” cui la ricostruzione del Pci e una storiografia consolidata hanno attribuito l’uccisione di Mussolini e Claretta Petacci. Capire come e chiedersi perché un’arma dal così alto potenziale simbolico venne donata da un parlamentare a un paese alla periferia del mondo comunista non risolve la vexata quaestio sulla morte del Duce, ma aiuta a comprendere il peso che nell’immediato Dopoguerra i partiti hanno esercitato sulla “sistemazione” di quegli eventi.

 

Per quanto concerne il ruolo del partigiano Walter Audisio (che non era un partigiano della brigata che arresta Mussolini ma un ufficiale del Corpo volontari della Libertà inviato dal Comando generale in missione a Dongo), la versione del Pci prende forma nel tempo, attraverso una serie di articoli pubblicati sull’Unità che sono andato a rileggere per testare l’autenticità del mitra albanese, scoprendo però che a scricchiolare è tutto il racconto che si sedimenta attorno alla certezza ribadita dell’arma. 

La prima versione dei fatti risale al 1° maggio 1945, quando l’Unità pubblica un’intervista anonima all’esecutore; solo l’inverno successivo, in una ricostruzione a puntate che esce tra il 18 novembre e il 15 dicembre, il giornale menziona il “colonnello Valerio”, nascondendo l’identità dietro al nome di battaglia e affiancandogli nell’azione altri due partigiani di cui altrettanto non si specificano i nomi di battesimo: Guido, partito da Milano insieme a Valerio, e Bill, vicecommissario della 52° Brigata (il partigiano che riconosce e arresta Mussolini nella piazza di Dongo). Giusto per capirci, per la “vulgata” del Pci (così la chiamava lo storico Renzo De Felice) la spedizione che nel primo pomeriggio del 28 parte da Dongo in direzione Bonzanigo per prelevare Mussolini e Petacci ed eseguire la sentenza è composta da quattro persone. Stando alla prima versione dell’Unità queste erano Valerio (Walter Audisio), Bill (Urbano Lazzaro), Guido (Aldo Lampredi) e un autista anonimo.

 

 

Che Valerio fosse Walter Audisio venne specificato solamente nel 1947: non per volontà del Pci ma in seguito alla rivelazione del quotidiano romano il Tempo che spinse il partito a confermare l’identità di Valerio e a chiedere per Walter Audisio le onorificenze militari. Quanto in ossequio ai fatti, quanto per evitare la proliferazione di versioni alternative? Il dubbio è legittimo, di fatto da un giorno all’altro il partito passò dalla segretezza all’esaltazione di un profilo pubblico, che venne sapientemente costruito attraverso la pubblicazione di una biografia incentrata sull’asciutta personalità dell’eroe che per sé non aveva cercato alcuna fama (“Una vita di comunista. Chi è il compagno Walter Audisio” è il titolo del 23 marzo 1947) e l’organizzazione di un incontro presso la Basilica di Massenzio (per la prima volta Audisio parla al Popolo. “40.000 romani ascoltano Valerio” è il titolo del 2 aprile 1947). Si noti che la versione del ’47 ritocca la foto di gruppo del ’45, sostituendo il vicecommissario Bill con il commissario Michele Moretti detto “Pietro”. In entrambe le versioni, giunti al momento dell’esecuzione il mitra di Valerio si inceppa, ma nel 1945 il compagno che lo soccorre passandogli il proprio Mas è Bill, nel ’47 diventa Pietro. Da allora tutte le ricostruzioni ribadiranno che il mitra oggi conservato a Tirana apparteneva a Pietro. Lo stesso Bill ammetterà che la versione del ’45 era sbagliata – “l’autore della relazione del Colonnello Valerio scambiò Pietro con me” –, ma lo farà soltanto nel 1993, in un libro scritto per sostenere che “Valerio” non era Audisio ma Luigi Longo – giusto per darvi un’idea di quante versioni esistono degli stessi fatti, talvolta coincidenti nei dettagli dell’arma sebbene opposte sull’identità attribuita all’esecutore.

 

Nel corso dei decenni la versione del ’47 si consolida ma non smette di modificarsi. Nel 1975 esce “In nome del popolo italiano”, le memorie che Audisio dà istruzione di pubblicare dopo la sua morte, avvenuta nell’ottobre 1973. Il libro tradisce a ogni passo il desiderio di essere definitivo, tanto che a un certo punto l’autore si scusa con il lettore – “si potrà pensare che a forza di ripetere ogni tanto che sto scrivendo soltanto di cose e fatti veri e veritieri, l’insistenza finisca col far sorgere il dubbio che in qualche punto del racconto non sia proprio così” –, ma anche in questo pedante esercizio di ripetizione la scena dell’esecuzione viene aggiornata. Cambia ad esempio il numero dei colpi esplosi (10 totali nelle versioni del ’45 e del ’47, solo 5 nel ’75), ma soprattutto cambia il ruolo del personaggio secondario Guido, che nel lasso di tempo che separa il malfunzionamento del mitra di Audisio e il passaggio del Mas da Pietro ad Audisio, prova in prima persona a esplodere un colpo di pistola verso Mussolini, sempre senza riuscirci (nel 1945 e nel 1947 la pistola difettosa apparteneva ad Audisio).

 

Nel 1972 lo stesso partigiano Guido consegna alla dirigenza del Pci la sua testimonianza, la quale verrà pubblicata dall’Unità solamente nel 1996. La principale novità di questa versione è la dignità del morituro – il “segreto inconfessabile” da parte comunista starebbe nel fatto che Mussolini uscì di scena gridando “mirate al cuore” –, ma nonostante ambisca a presentarsi come verità post-ufficiale, anche la deposizione di Guido rimane un documento di partito, scritto da un militante che solo al partito risponde e del quale il partito potrà disporre. Inoltre nei giorni in cui Guido consegna la sua versione Audisio è ancora vivo: non si può dunque escludere che il Pci abbia chiesto a quest’ultimo di uniformare la redazione delle sue memorie a quella del compagno, concedendo a Guido il colpo di pistola che le versioni del ’45 e del ’47 gli avevano negato.

Che la deposizione di Guido esca nel 1996, quando il Pci peraltro non esiste più (a divulgare i documenti fu l’Istituto Gramsci di Roma), può essere dovuto al fatto che due anni prima era uscito il controverso libro di Bruno Giovanni Lonati (in armi “Giacomo”), il quale si attribuì la fucilazione di Mussolini all’interno di un’operazione dei servizi segreti inglesi volta a impedire la diffusione del famigerato carteggio Churchill-Mussolini che imbarazzava Londra (e che nessuno ha mai trovato). Per gli studiosi che battono la cosiddetta “pista inglese” – una delle teorie alternative più autorevoli, o se vogliamo meno bizzarre –, la fucilazione potrebbe essere avvenuta la mattina del 28 settembre fuori dall’abitazione in cui Mussolini e Petacci passarono l’ultima notte, e dunque prima che l’inviato “Valerio” (Audisio? Longo?) arrivasse sul posto, a quel punto soltanto per inscenare una seconda fucilazione comunista da consegnare ai posteri. Questo filone di ricostruzioni, oggi accreditate dal giornalista Luciano Garibaldi, hanno il merito di evidenziare una plausibile convergenza di interessi tra Churchill e il Clnai sulla fine di Mussolini, ma va detto che allontanandosi dalla vulgata e dalle sue contraddizioni aumentano più i buchi delle prove.

 

Quel mitra nella storia va e viene. Riemerge negli anni Ottanta, quando Tirana sprofonda nell’economia autarchica e sa che avrà bisogno di Roma

 

Torniamo dunque a Tirana. Ricordo che mentre fissavo stupefatto la teca che conserva il cimelio (non avevo mai sentito parlare di questa storia), un’anziana addetta del Museo nazionale capì che ero italiano e con lo scetticismo tipico di chi ha vissuto una fetta di vita nel regime di Enver Hoxha mi chiese se quel mitra era “davvero vero”. Sulla base di quanto ho letto oggi le risponderei così: è vero nella misura in cui le sue caratteristiche tecniche corrispondono a quelle messe nero su bianco dal 1945 in avanti; è vero nella misura in cui fu Walter Audisio in persona a lavorare alla sua accoglienza oltre Adriatico; certamente fu vero per i dirigenti comunisti albanesi, che non potevano avere una conoscenza approfondita dei fatti di Dongo e per i quali Audisio aveva la credibilità di un partigiano combattente e di un ex prigioniero di Ventotene (un esilio che anche i dissidenti albanesi avevano conosciuto dopo il 1939).

 

Le carte dell’Archivio di stato di Tirana chiariscono lo sfondo politico di questa amicizia partigianesca, che Audisio coltiva attraverso colloqui riservati presso l’ambasciata albanese a Roma. Il contesto internazionale è quello della destalinizzazione: siamo nei mesi in cui Togliatti comincia a lavorare alla “via italiana” e i dirigenti albanesi, ortodossi per ragioni genetiche (nel 1948 fu Stalin a salvarli dall’abbraccio della Jugoslavia di Tito) sono preoccupati dal nuovo corso “revisionista” del Pci e cercano nel panorama del comunismo italiano interlocutori alternativi alla dirigenza. 

Nel giugno 1957 Audisio frequenta assiduamente l’ambasciata per preparare un’estate di ritiro in Albania (le vacanze dei comunisti occidentali in est Europa sono un grande classico nelle relazioni della Guerra fredda), ed è proprio nel corso di quel soggiorno, conclusosi in settembre con una lettera struggente – “I saluti che vi porgo sono quelli del compagno, dell’amico sincero che auspica per voi, per il vostro Partito e per il vostro Popolo tutte le vittorie e le migliori conquiste” – che Audisio concorda con il numero tre del regime Hysni Kapo il trasferimento del mitra. Sul tempismo di queste relazioni influiscono senza dubbio i processi che Audisio si predispone ad affrontare per i fatti di Dongo. Il 29 aprile del 1957, nel dodicesimo anniversario di Piazzale Loreto, si era aperto a Padova il dibattimento del cosiddetto processo sull’“oro di Dongo”, dove Audisio è ascoltato come testimone. Un anno prima, il 5 luglio 1956, la Camera aveva espresso parere favorevole alla richiesta di autorizzazione a procedere per “malversazione a danno di privati” a seguito delle cause civili che i parenti di Claretta Petacci intentano nel tentativo di arrivare a un procedimento penale, cosa che gli riuscirà solo nel 1965. Dalle accuse di omicidio volontario pluriaggravato, appropriazione indebita e vilipendio di cadavere Audisio viene assolto nel 1967 (per il giudice istruttore i fatti non sono punibili in quanto si svolgono in un contesto di guerra partigiana), ma un decennio prima Audisio non può esserne certo e in un clima nazionale sempre più ostile è comprensibile che cerchi di impostare delle vie di fuga. Il 26 giugno 1957, sapendo che le sue parole sarebbero state trasmesse a Tirana, si rivolge in questi termini all’ambasciatore albanese Edip Çuçi: “Il partito vuole che io non li chiami fascisti quando mi giudicano sulla questione di Mussolini. Ma io li ho chiamati fascisti, sia il giudice che il processo, e li ho smascherati. Questo l’ho fatto per senso di responsabilità, anche se il Partito mi aveva dato una direttiva contraria. Ho detto al partito che non faccio alcun passo indietro dalla mia posizione: se non sono d’accordo, troverò un altro posto dove lavorare, tranquillo con la mia coscienza. Io penso che l’Albania mi potrebbe accogliere. Preferisco l’Albania perché so che là non ci sono chiacchiere ma lavoro”.

 

Perché proprio l’Albania? Forse perché vicina, forse perché ex colonia del fascismo e politicamente predisposta ad accogliere il partigiano che gli tagliò la testa. Su questo punto Audisio in verità si sbagliava: nel racconto del leader dell’Albania popolare erano stati gli albanesi a uccidere il fascismo, nessun combattente straniero sarebbe mai stato ammesso nell’immaginario nazionale. La segretezza con cui il mitra giunse a Tirana rispettò la precisa richiesta di Audisio, il che ci conferma che si trattò di un gesto più “preparatore” che simbolico, ma lo stesso regime albanese fu lieto di non costruirvi mai, nemmeno negli anni seguenti, una narrazione italo-albanese. Di lì a poco Enver Hoxha si divincola da Krusciov per legarsi alla Cina di Mao: il mitra si inabissa di nuovo, per riemergere negli anni Ottanta, quando Tirana sprofonda nell’economia autarchica e sa che avrà bisogno di Roma. 

 

Anche non avendo teorie alternative da contrapporre alla vulgata (io non ne ho), credo si possano dire due cose semplici. Primo. Il fatto che i 2/3 delle armi del commando scelto per prelevare Mussolini a Bonzanigo si siano inceppate è degno di una sceneggiatura di Comencini: dato il contesto di guerra e l’esperienza dei combattenti coinvolti la credibilità di una versione del genere è molto bassa quantomeno a livello statistico. Ma a maggior ragione se ci crediamo non possiamo non chiederci perché l’unico mitra che non tradì in quel confuso valzer di armi – che passando di mano in mano in un certo senso distribuiscono e diluiscono le responsabilità dei presenti – non sia divenuto un cimelio nazionale. Sottrarlo a eventuali perizie e preparare un piano di fuga per Audisio furono due priorità contingenti, ma il fatto che ancora oggi quel mitra sia in Albania e totalmente sconosciuto alla retorica resistenziale nostrana non aumenta la credibilità di una vulgata che proprio sull’identità dell’arma aveva insistito con puntiglio, quasi a voler compensare la nebbia lasciata su particolari ben più rilevanti.

 

Secondo: una lettura distaccata e sinottica delle ricostruzioni che Valerio, Guido Bill e Pietro hanno consegnato ai posteri restituisce un gruppo per nulla coeso da quella che fu una straordinaria esperienza bellica. La sensazione (ripeto, letteraria e umana più che storica) è che essendo costretti da una postuma forza superiore a fornire una versione coincidente dei fatti, i testimoni abbiano affidato a dettagli che non compromettono la versione ufficiale frammenti di quello che avrebbero voluto dire o indizi del loro disagio per le versioni dell’altro – che senso ha, ad esempio, che Guido specifichi che “Valerio non lesse alcuna sentenza”? Alla sua relazione Guido allegò anche “Alcune considerazioni sulla pubblicità data ai fatti di Dongo”, amarezze sempre molto controllate ma che suonano più vere di altri passaggi della deposizione: “Sulla mia andata in Federazione di Como e sul contributo fornito da quei compagni, non è stato mai pubblicato nulla e il più stretto riserbo è stato tenuto dal partito. Credo che i motivi siano stati diversi. Ritengo che al momento della pubblicazione dei racconti di Audisio sull’Unità del novembre 1945 e del marzo 1947 vi sia stata la giusta preoccupazione politica di sottolineare il carattere ufficiale e unitario delle decisioni del Comando Generale e del Clnai e quindi, di non mettere in evidenza il ruolo decisivo svolto dal partito. […] Sento invece il bisogno di esprimere ampie riserve sul modo con cui si è proceduto alla pubblicazione degli articoli di Audisio sull’Unità e sul loro contenuto ed inoltre, sul fatto che io sia stato sempre escluso da tutto quanto riguardasse gli avvenimenti di Dongo. Infatti, nessun dirigente di partito ha sentito mai il bisogno di chiedermi quello che avevo compiuto in quell’occasione, e nemmeno fu sentito il dovere, o almeno la correttezza, di avvertirmi delle pubblicazioni dell’Unità e di quello che si sarebbe scritto sul mio conto”.

 

A prescindere da quanto sia o non sia vicina al vero, in termini esistenziali la “vulgata” del Pci è stata una costruzione inospitale per tutti i protagonisti che ha coinvolto, anche quando ha garantito successo o protezione. Il mitra che uccise il Duce dimenticato in Albania un fatto vero a ben vedere lo racconta: che sotto gli eventi della grande Storia vivono gli esseri umani, fatti di grandezza, libertà e coraggio; piccolezza, meschinità e sciagure. Per dirla con Fenoglio, fatti di questioni private. Regole universali, che nulla tolgono e anzi nutrono il valore umano della nostra, collettiva, Liberazione.

 

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