I dati ottenuti durante le sperimentazioni cliniche dei farmaci sono ovviamente di importanza fondamentale per valutare in maniera obiettiva efficacia e sicurezza di ogni trattamento proposto. Nel tempo, è emerso con chiarezza che, oltre che al regolatore, tali dati dovrebbero essere accessibili in maniera completa alla comunità di ricerca, la quale è l’unica in grado di rianalizzarli sia per ragioni di verifica e di validazione, che per integrarli fra loro all’interno di metanalisi di ampio respiro o di nuovi lavori. Tuttavia, come ho potuto sperimentare io stesso nel caso del vaccino Sputnik, persino quando una rivista scientifica della levatura di Lancet dovrebbe fare da garante, e indipendentemente dal coinvolgimento di aziende, quei dati vitali possono essere resi inaccessibili al ricercatore terzo. Per questo, fu a suo tempo lanciata un’iniziativa che, attraverso il coinvolgimento sia dei regolatori che delle riviste scientifiche, era volta al miglioramento dell’accesso a tali dati e all’accrescimento della trasparenza complessiva. A seguito di tale iniziativa, nel corso degli ultimi dieci anni l’industria farmaceutica ha compiuto notevoli progressi nell’implementazione di politiche di condivisione dei dati provenienti da studi clinici.
Un gruppo di ricercatori ha quindi cercato di valutare in modo obiettivo l’utilità e la completezza dei dati individuali dei partecipanti agli studi clinici (IPD) e dei documenti di supporto forniti su richiesta dalle aziende. I dati sono stati pubblicati su Jama Oncology. Durante lo studio, sono stati richiesti i pacchetti IPD corrispondenti a 91 studi clinici oncologici sponsorizzati dall’industria farmaceutica, che supportavano l’approvazione di farmaci anticancro negli ultimi dieci anni. Dei 91 studi, sono stati ottenuti i pacchetti IPD da 70 (77%), il che costituisce effettivamente un notevole miglioramento nella risposta rispetto a studi precedenti, fermi a percentuali molto più basse, realizzati anni fa. Tuttavia, è stata riscontrata una notevole variabilità nella completezza dei dati chiave e dei documenti di supporto nei pacchetti IPD forniti.
Per migliorare ulteriormente, sostengono gli autori, è necessario armonizzare le pratiche di condivisione dei dati IPD tra le diverse aziende farmaceutiche. È importante garantire valutazioni indipendenti delle proposte di ricerca, processi di anonimizzazione e redazione efficaci per accrescere l’utilità dei dati e una fornitura completa di documentazione di supporto. A valle di questo percorso propedeutico e una volta che uno studio clinico è completato, tre sono i punti su cui si dovrebbe lavorare per correggere gli attuali difetti: (1) i dati IPD degli studi clinici dovrebbero essere in un formato standard, idoneo per la condivisione, (2) i dati IPD dovrebbero essere accessibili in modo trasparente attraverso processi di richiesta mediati da enti unici e indipendenti e (3) i pacchetti IPD forniti dovrebbero soddisfare uno standard di completezza elevato, pena il non riconoscimento di quanto pubblicato.
Questi primi risultati si affiancano ad un altro gruppo di evidenze ottenute dagli autori, in linea proprio con il caso di Sputnik che citavo in apertura: l’accesso a IPD di alta qualità da parte di studi clinici non sponsorizzati dall’industria rimane una sfida, di entità addirittura maggiore che nel caso delle aziende farmaceutiche. I motivi sono disparati: innanzitutto, il processo di raccolta e conservazione dei dati clinici da parte di enti pubblici è spesso di qualità molto inferiore a quello delle aziende farmaceutiche, anche a causa dei costi molto maggiori che sostengono queste ultime. Tra i più comuni difetti di questo processo, vi è l’insufficiente anonimizzazione dei partecipanti e la scarsa sicurezza delle infrastrutture informatiche utilizzate, che bloccano alla radice la possibilità di condivisione dei dati IPD di dettaglio.Inoltre, è comune anche rilevare come i ricercatori presso le istituzioni pubbliche non dispongano dell’accesso a professionisti dedicati alla raccolta appropriata e alla conservazione dei dati IPD, e, naturalmente, mancano spesso della conoscenza e delle competenze necessarie per raggiungere in autonomia standard soddisfacenti. È quindi probabile, alla luce di quanto osservato dagli autori dello studio citato, che se la stessa analisi fosse condotta su un campione di studi clinici svolti da un gruppo rappresentativo di istituzioni pubbliche, la percentuale di accesso a dati IPD utili sarebbe molto, molto più bassa di quanto osservato per le aziende farmaceutiche.
Solo l’armonizzazione delle pratiche di condivisione dei dati IPD, sia provenienti da aziende che da enti pubblici, e l’implementazione di standard più elevati nel settore pubblico può consentire di sviluppare un ecosistema di condivisione dei dati ottimale, così da fornire ai ricercatori e ad altri attori pubblici le migliori informazioni possibili sui farmaci ai pazienti. L’attuale doppio standard non è ulteriormente sostenibile, e dopo il notevole miglioramento, pur se ancora non pienamente soddisfacente, misurato in ambito industriale, è necessario che le istituzioni pubbliche comincino ad adeguarsi e a dedicare risorse anche economiche sufficienti.