ROMA – Non è una crisi come le altre, quella in corso. La reazione muscolare del Viminale all’ultimo salvataggio in mare della Sea-Watch sposta l’asticella più in là, intrappolando le navi delle ong in una manovra a tenaglia che coinvolge l’intelligence italiana, la Libia e Malta. Si apre, dunque, una nuova fase della strategia salviniana di desertificazione del Mediterraneo Centrale, basata sull’improvviso – e, vedremo, affatto casuale – risveglio del Centro soccorsi libico. Che ieri, per la prima volta da quando esiste, ha comunicato un porto sicuro per i 52 migranti della Sea-Watch in fuga dalla Libia. Tripoli.
Proprio Tripoli.
E’ l’ultimo atto della grande Farsa. La Libia, infatti, gestisce formalmente dal giugno 2018 una vasta zona Search and Rescue (Sar), al cui interno coordina le operazioni di ricerca e salvataggio. Si è registrata, con una auto-certificazione, presso l’Imo, l’ente delle Nazioni Unite che regolamenta il traffico marittimo. Si tratta, né più né meno, di una bugia internazionale, come Repubblicaha già documentato. Non foss’altro perché la Libia è platealmente priva dell’elemento basilare per gestire una Sar: la presenza di porti sicuri dove condurre in salvo i naufraghi.
Tre diverse agenzie delle Nazioni Unite concordano sul punto. Anche la Commissione europea, due mesi fa, attraverso la portavoce Natasha Bertaud, è stata chiara: “Non ci saranno rimpatri dall’Unione verso la Libia o navi europee che rimandano indietro i migranti. E’ contro i nostri valori e contro le leggi internazionali ed europee”. In Italia cinque sentenze di Tribunale (Ragusa, Palermo, Trapani) ribadiscono lo stesso concetto. Persino Matteo Salvini, il 25 maggio scorso, davanti alle telecamere della trasmissione La Tribù su Skytg24 ha dovuto ammettere: “Adesso la Libia è un porto insicuro, instabile, ed è un problema non solo sul fronte dell’immigrazione”. Si è accorto dell’ovvio, il nostro ministro dell’Interno. Solo negli ultimi dieci giorni le cronache di Tripoli hanno riportato il raid aereo contro l’aeroporto di Mitiga (6 giugno), il bombardamento dell’ospedale Swami Field (7 giugno), il rinnovo di un altro anno dell’embargo per la vendita di armi alla Libia disposto dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (9 giugno).
Nonostante ciò, ieri la Guardia costiera libica ha chiesto alla Sea-Watch di riportare a Tripoli i 52 migranti salvati, indicando la capitale della Libia come porto sicuro. Un cambiamento perfettamente funzionale alla nuova strategia di Salvini, che di fronte all’inefficacia della “politica dei porti chiusi” (ribadita sì a parole, ma affondata dalla realtà dei fatti, perché i porti non sono mai stati chiusi), punta ora alla mossa finale per neutralizzare le navi ong. Un obbiettivo ambizioso, che il ministro vuole conseguire utilizzando tre strumenti.
Il principale è il Decreto sicurezza bis, che permetterà al titolare del Viminale di impedire l’accesso nelle acque territoriali italiane a qualsiasi nave ritenuta “non inoffensiva”. Quali sono, nella sua interpretazione, le imbarcazioni delle ong che disobbediscono all’ordine di riportare i migranti “al porto sicuro” di Tripoli. Ieri, però, il decreto non aveva ancora passato il vaglio del presidente Mattarella, e per questo Salvini è stato costretto a scrivere di getto l’ennesima direrttiva ad navem che ne riproduceva parte del contenuto.
Il secondo è l’ascendente che l’intelligence italiana esercita sulla marina libica. Da mesi, la nave militare Capri è ormeggiata in porto, a Tripoli e da lì, di fatto, aiuta a gestire la Sar libica, nell’ambito dell’operazione Nauras, come dimostrato dalle intercettazioni pubblicate sul sito di Repubblica relative alla gestione di uno degli sbarchi della Mare Jonio, la nave della piattaforma civica Mediterranea.
Il terzo è Malta. Dopo mesi di tensioni e provocazioni reciproche (“se è vero che Malta fornisce benzina, giubbotti di salvataggio e bussole ai migranti, indirizzandoli verso l’Italia, ne pagherà le conseguenze, io mi sono rotto le palle”, diceva Salvini non più tardi del novembre scorso), ieri fonti del Viminale diffondono un comunicato stampa congiunto Italia-Malta, in cui danno contro di una telefonata col premier maltese Muscat. “Hanno condiviso – si legge – l’esigenza di proseguire la collaborazione volta a sostenere le auorità libiche per rafforzarne la capacità di soccorso in mare e di controllo delle frontiere”.
Uno, due, tre. Ecco la tenaglia. Che però rischia di schiantarsi, come sovente accade con le forzature di Salvini, sullo scoglio del diritto. “La direttiva – spiega Fulvio Vassallo Paleologo, docente di diritto d’asilo all’Università di Palermo – si fonda su due presupposti: il dovere di obbedire alla guardia costiera libica e il potere di vietare, o limitare, l’accesso alle acque territoriali italiane. Il primo è stato dichiarato infondato dalle Nazioni Unite, e il secondo appare in violazione del divieto di respingimenti collettivi, ribadito dall’articolo 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”.