• 9 Dicembre 2025 17:35

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Terremoto Red Bull, via subito Helmut Marko: è stato l’architetto del team austriaco

Dic 9, 2025

Ci sono momenti in cui la Formula 1 assomiglia più a una saga cinematografica che a uno sport. Storie che si dilatano per decenni, destini che si intrecciano fino a confondere gli uomini con i miti. Alla Red Bull, in questo 2025 avaro di successi ma ricco di rivoluzioni, le fondamenta stanno tremando. Prima il licenziamento brusco, quasi teatrale, di Christian Horner. Ora l’addio anticipato di Helmut Marko, l’uomo che più di ogni altro ha incarnato lo spirito coltivato da Dietrich Mateschitz: spregiudicatezza, visione e una certa feroce capacità decisionale. Ora il suo tempo è scaduto.

Un pezzo di storia

È un congedo che pesa, perché Marko non è stato soltanto un dirigente d’assalto: è stato un pezzo di storia del team, e ancor prima della F1. La sua vita cambiò il 2 luglio 1972, a Clermont-Ferrand, quando un sasso sollevato dalla March di Ronnie Peterson gli perforò la visiera, cancellando per sempre la sua carriera di pilota. L’austriaco, in quel tragico frangente, per l’occhio. Fine delle corse, inizio di qualcos’altro. Da lì nacque il Marko manager, consulente e selezionatore di talenti. Un uomo che ha trasformato una tragedia personale in una lunga e tortuosa ascesa verso il successo.

Negli anni Ottanta e Novanta aveva già messo mano a più di una carriera promettente, compresa quella del connazionale Gerhard Berger. Ma il punto di svolta arrivò quando si mise sulla stessa frequenza di Mateschitz, intuendo che l’allora emergente marchio di bevande energetiche poteva trovare nel motorsport un terreno fertile. Propose il sostegno a Berger, poi divenne consigliere, poi quasi un architetto strategico. Red Bull iniziò a sponsorizzare la Sauber, ma il legame si incrinò quando Peter Sauber preferì un giovanissimo Raikkonen al protetto Enrique Bernoldi. Una decisione che Marko non dimenticò. Fu in quel momento, nella tensione di un rapporto finito, che nacque l’idea più grande: comprare un team. Mateschitz approvò, e nel 2004 la Jaguar diventò Red Bull Racing. Quello fu il primo mattone. Ma il palazzo, nei fatti, lo costruì Marko.

Il regno dell’austriaco

Il suo regno fu soprattutto quello dei piloti. Il Red Bull Junior Team esplose con un’intensità rara: nel 2006 e 2007 arrivò ad avere fino a venti giovani divisi tra Formula Renault, F3 e GP2. Un esperimento darwiniano. Ritmi brutali. Occasioni fulminee e licenziamenti via telefono. Il “metodo Marko” entrò nel vocabolario del paddock: temuto, discusso e copiato.

Per dare ai giovani un trampolino vero, convinse Mateschitz ad acquistare anche la Minardi, trasformandola nella Toro Rosso. Da Faenza sarebbero passati più di venti piloti destinati a plasmare la F1 del decennio successivo. Da Vettel a Ricciardo, fino all’astro più luminoso: Max Verstappen. Con lui Marko stabilì un rapporto quasi paterno, ruvido ma sincero. Aveva spesso ribadito di volerlo accompagnare almeno fino alla fine del 2026. Invece, il sipario si chiude adesso.

Negli ultimi mesi erano circolate voci di frizioni con Oliver Mintzlaff, il nuovo responsabile dei programmi sportivi dopo la scomparsa di Mateschitz. Piccole crepe, poi una decisione che ha il sapore del passaggio di consegne definitivo. “Ho vissuto nel motorsport per sei decenni – ha detto Marko – e gli ultimi 20 anni alla Red Bull sono stati straordinari. Aver mancato di poco il mondiale mi ha commosso: è il momento di chiudere questo capitolo”.

Un vuoto difficile da colmare

Mintzlaff, dal canto suo, ha definito la scelta “un vuoto enorme”. Ed è difficile dargli torto: al di là dei modi tranchant e delle antipatie accumulate negli anni, Marko è stato la spina dorsale ideologica del progetto Red Bull. L’uomo che ha trasformato un brand in una potenza sportiva. Ora la squadra di Milton Keynes volta pagina. Ma senza Horner e senza Marko, ciò che verrà non sarà una semplice evoluzione: sarà un’altra Red Bull. Una nuova era, con la responsabilità di non sprecare l’eredità di chi l’ha costruita.

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