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Stragi di Capaci e via D’Amelio: 31 anni dopo ancora nessuna giustizia

Mag 23, 2023

AGI – Le stragi di Capaci e di via D’Amelio. A separarle sono 57 giorni. Trentuno sono gli anni che invece dividono i due eccidi da una verità piena la cui ricerca è ancora oggetto di processi e nuove indagini, tra condanne, assoluzioni e prescrizioni che contribuiscono a tenere aperto il conto con la giustizia. Un anniversario che cade pochi mesi dopo verdetti per certi versi clamorosi, e la cattura di Matteo Messina Denaro, l’ultimo boss stragista che era rimasto fuori dal carcere, arrestato a Palermo il 16 gennaio.

Stanco e malato, non ha offerto alcun cenno di cedimento e al processo in corso a Caltanissetta, in cui è imputato quale mandante delle stragi del ’92, non si è mai presentato, lasciando vuota la sedia della stanza per il videocollegamento del supercarcere di L’Aquila. La sentenza del processo Stato-mafia, in particolare, sulla presunta trattativa tra pezzi delle istituzioni e i vertici di Cosa nostra, del 20 aprile 2018, aveva aperto scenari inediti, poi bruscamente richiusi in buona parte dalla decisione d’Appello segnata da una serie di assoluzioni confermate recentemente dalla Cassazione.

“AVEVANO GIA’ INIZIATO A FARLI MORIRE”

Gli attentati contro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino si consumarono in un contesto d’incapacità e complicità che va ben oltre il livello della mafia, in un quadro, certificato da una sentenza, di “colossale depistaggio”. Il 23 maggio del 1992, Giovanni Falcone, direttore degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia e candidato alla carica di procuratore nazionale antimafia, era appena atterrato all’aeroporto di Punta Raisi con la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato.

Alle 17.58, sull’autostrada Trapani-Palermo, nei pressi di Capaci, la tremenda esplosione che li uccise con gli uomini della scorta. Circa 500 chili di tritolo piazzati dentro un canale di scolo esplosero mentre transitavano le Croma. La prima auto blindata – con a bordo i poliziotti Antonino Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo – venne scaraventata oltre la carreggiata opposta di marcia, su un pianoro coperto di ulivi. La seconda Croma, guidata dallo stesso Falcone, si schiantò contro il muro di detriti della profonda voragine aperta dallo scoppio. L’esplosione divorò un centinaio di metri di autostrada.

Poco più di un mese dopo, il 25 giugno, Paolo Borsellino denunciò la costante opposizione al lavoro e al metodo di Falcone di parti consistenti delle istituzioni: “Secondo Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione. Oggi che tutti ci rendiamo conto di qual è stata la statura di quest’uomo, ci accorgiamo come in effetti il Paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò a farlo morire il primo gennaio del 1988, quando il Csm con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Meli”.

A un certo punto, raccontò Borsellino, “fummo noi stessi a convincere Falcone, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato le esperienze del pool antimafia. Era la superprocura”. La mafia “ha preparato e attuato l’attentato del 23 maggio nel momento in cui Giovanni Falcone era a un passo dal diventare direttore nazionale antimafia”.

VIA D’AMELIO, INERZIA TRAGICA

Poco fu fatto per proteggere Paolo Borsellino. 51 anni, da 28 in magistratura, procuratore aggiunto nel capoluogo siciliano dopo aver diretto la procura di Marsala, pranzò a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia. Poi si recò con la sua scorta in via D’Amelio, dove vivevano la madre e la sorella. Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell’abitazione della madre con circa cento chili di tritolo a bordo, esplose al passaggio del giudice, uccidendo anche i cinque agenti. Erano le 16.58. L’esplosione, nel cuore di Palermo, venne avvertita in gran parte della città. L’autobomba uccise Emanuela Loi, 24 anni, la prima donna poliziotto in una squadra di agenti addetta alle scorte; Agostino Catalano, 42 anni; Vincenzo Li Muli, 22 anni; Walter Eddie Cosina, 31 anni, e Claudio Traina, 27 anni. Unico superstite l’agente Antonino Vullo.

CAPACI BIS, “CONVERGENZA DI INTERESSI”

Il 14 giugno dell’anno scorso la Cassazione ha confermato l’ergastolo per Salvatore Madonia, Giorgio Pizzo, Cosimo Lo Nigro e Lorenzo Tinnirello nell’ambito del processo Capaci bis. Secondo la ricostruzione accusatoria, gli imputati avrebbero svolto un ruolo fondamentale per l’organizzazione dell’attentato. Per Maria Falcone che allora commentò il verdetto, questo “apre allo scenario della convergenza di interessi nell’attentato, prospettato nella sentenza della Corte d’assise.

Due, per Maria Falcone, gli elementi accertati dai magistrati: il sondaggio che, ha raccontato il pentito Giuffrè, venne fatto da Cosa nostra presso ambienti politici e imprenditoriali prima dell’attentato; e il diktat di Riina che, a marzo del 1992, disse ai suoi di fermare la missione romana che avrebbe dovuto eliminare Giovanni Falcone perché a Palermo ‘c’erano cose più importanti da fare’. Elementi che fanno pensare appunto a una convergenza di ambienti esterni alla mafia nell’interesse ad uccidere Giovanni”.

“COLPO DEFINITIVO ALLA TRATTATIVA”

Di certo il 27 aprile di quest’anno la Corte di Cassazione ha messo la parola fine sulla presunta trattativa Stato-mafia, affermando che gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, “non hanno commesso il fatto”. Una formula piena, mente la corte in secondo grado aveva utilizzato la formula meno ampia “perché il fatto non costituisce reato”, assolvendo comunque gli imputati. Per loro la procura generale, nell’udienza del 14 aprile scorso, aveva chiesto un appello-bis. In particolare l'”annullamento con rinvio della sentenza impugnata, limitatamente alla minaccia nei confronti dei governi Amato e Ciampi”. Per il boss Leoluca Bagarella e per il medico Antonio Cinà, considerato vicino a Bernardo Provenzano, è invece intervenuta la prescrizione. Confermata l’assoluzione per l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri.

DEPISTAGGIO, LA PROCURA NON SI ARRENDE: “MANI ESTERNE”

Nei giorni scorsi i magistrati della procura di Caltanissetta hanno presentato ricorso contro la sentenza di primo grado emessa il 12 luglio 2022 sul depistaggio delle indagini su via d’Amelio che si è concluso con la dichiarazione di prescrizione del reato di calunnia aggravata contestato ai poliziotti Mario Bo e Fabrizio Mattei e l’assoluzione del terzo poliziotto imputato, Michele Ribaudo. L’accusa parla di contraddizioni e profili di illogicità” e sostiene che “è dimostrato in maniera incontrovertibile il coinvolgimento nella strage del 19 luglio 1992, costata la vita al giudice Paolo Borsellino e alla sua scorta, anche di soggetti estranei all’associazione mafiosa Cosa nostra, affermazione che non può nemmeno essere messa in discussione dal mancato accertamento di specifiche responsabilità penali”.

Per la procura le prove del coinvolgimenti di soggetti estranei alla mafia sarebbero la “tempistica della strage che non coincide con gli interessi della consorteria mafiosa e la strana presenza di appartenenti al servizio di sicurezza attorno alla vettura blindata del magistrato negli attimi immediatamente successivi all’esplosione”. Del resto gli stessi giudici che hanno firmato la contestata sentenza, amaramente commentavano: “Tra amnesie generalizzate di molti soggetti appartenenti alle istituzioni e dichiarazioni testimoniali palesemente smentite, l’accertamento istruttorio sconta gli inevitabili limiti derivanti dal velo di reticenza cucito da diverse fonti dichiarative”. 

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