“Spero di poter lasciare alle famiglie la libertà di scegliere”, cioè di mandare i figli a scuola oppure tenerseli a casa in Dad, perché secondo Michele Emiliano è nientemeno che “un diritto costituzionale”. Ha emanato un’ordinanza. Ma nessuno dice niente, a Emiliano che videochiama scompisciandosi i pischelli che a scuola non vanno (sono in Dad: ma in gruppo e senza mascherine). Tutti sorvolano, il governo e pure i carabinieri, che come ai tempi di Pinocchio dovrebbero andare a prenderli i genitori che non mandano i figli a scuola. Ma l’Italia è il paese dei balocchi, se si parla di scuola.
L’atteggiamento, reiterato, del governatore pugliese Emiliano è increscioso. Sostenere che la frequenza scolastica sia un optional a discrezione delle famiglie è falso, oltre che grave: per le scuole dell’obbligo, la sottrazione dei minori alla frequenza scolastica è esplicitamente un reato (art. 731 del Codice penale; per quanto una sentenza di Cassazione abbia segnalato che, quando l’obbligo fu portato a 16 anni, il legislatore “dimenticò” di modificare la norma, che risulta così mancante dai dieci anni in su: chapeau). Per quanto riguarda invece le superiori, occorrono almeno tre quarti di lezioni frequentate: altrimenti scatta la bocciatura. E se la scuola è aperta e dunque da frequentare oppure chiusa, non lo decidono le famiglie. Ma norme a parte c’è un aspetto di gravità culturale gigantesco, l’implicito invito a considerare l’istruzione una faccenda secondaria, meno importante della frequenza in pizzeria e subordinata ad altri interessi. Non è un mistero che Emiliano punti semplicemente ad assecondare “l’interesse” delle mamme (che “tanto” non lavorano) di togliersi l’impiccio della scuola. Ma è singolare che questa situazione così grave soprattutto nelle regioni meridionali non sia denunciata da nessuno e tollerata persino a livello politico, e tanto più a sinistra, dove la retorica sull’istruzione è sempre così roboante. Quando nell’ottobre scorso Emiliano chiuse di sua iniziativa le scuole per qualche sporadico caso di contagio, l’allora ministra Lucia Azzolina, del partito populista meridionalista, che pure aveva mandato ispettori in Lombardia per molto meno, si limitò a lamentarsene su Facebook.
Focalizzarsi solo sul populismo di Emiliano è però sbagliato. L’ennesimo scontro – dopo ormai quasi due anni scolastici di scontri – tra regioni e governo sulle riaperture appena decise (e appena modificate) dimostra che il problema è nazionale e politicamente trasversale. Il governatore lombardo Attilio Fontana è stato tra i primi a dichiarare “impossibile” la riapertura delle scuole al 100 per cento. Più esplicito il governatore della Campania De Luca, che ha annunciato una ripartenza al 50 per cento. Anche Luca Zaia ha confermato che per riaprire oltre una certa percentuale occorrono (ma evidentemente non ci sono) maggiori condizioni di sicurezza, soprattutto per i trasporti. L’altro aspetto carente è la mancata disponibilità di aule aggiuntive in cui dividere gli alunni: del resto, durante tutto l’anno la scuola è stata fatta al massimo con una presenza del 50 per cento. E né il governo né tantomeno le regioni, assillati da altre urgenze, si sono attrezzati per una ripartenza reale e completa della scuola in presenza: alla quale probabilmente nessuno credeva. Non è stato fatto il piano per i trasporti, non si è messa a tema (anche per il prossimo anno) la necessità di avere aule in più (in affitto: per la nuova edilizia finanziata dal Recovery plan ci vorranno anni).
Così, si arriva al pasticcio ben sintetizzato da Mariastella Gelmini, che candidamente ha ammesso: “Le regioni avevano chiesto di partire dal 60 per cento e in questo senso avevamo raggiunto un accordo. Il presidente del Consiglio Draghi ha chiesto di fare uno sforzo ulteriore… nel decreto ci sarà scritto il 70 per cento: ma non metteremo a rischio nessuno. Se non sarà possibile assicurare queste quote regioni ed enti locali potranno derogare”. Impossibile negare che, al di là del populismo sfacciato di Emiliano, la ripartenza in presenza della scuola era solo una favola buona per il paese dei balocchi.