La bancarella di libri a Piazzale Flaminio ridotta a un tizzone di cenere e lacrime del proprietario, nella voluta di fumo che metaforicamente, nella stessa giornata, si è sposata al rogo del Foro Italico, in una savana di erba incolta, sterpaglie e rifiuti, e poi verso oriente, sulla Pontina e poi tra Casilina e Togliatti, dove gli autodemolitori sono andati in fumo. E quella colonna, tetra come le fucine di Mordor, si è mossa cullata dal vento, una massa nera che ha avvolto, simile a un sudario, il profilo sempre più degradato della città.
Roma come l’Ucraina bombardata, ma senza i bombardamenti; sempre più incendi, sempre più campi abbandonati, sempre più giardini rinsecchiti e giallini, sempre più degrado che esplode ovunque, dal centro alle periferie. Nella migliore tradizione della politica capitolina, strutturalmente votata al vittimismo e alla indecisione permanente, la prolungata sequenza di roghi è stata subito trasformata, dalla comunicazione di partito, in un attacco alla amministrazione romana: che possa esservi la mano dell’uomo e una buona percentuale di dolo dietro quei fuochi è di palese evidenza, ma che quegli attacchi siano orientati verso il Campidoglio, per avversare qualche sua specifica policy in materia ambientale, è un mero esercizio di ammuina politica che non ha a sostegno alcun dato empirico.
Tanto ciò vero che i Carabinieri preposti alle indagini e la Procura della Repubblica hanno chiaramente rilevato come ad ora non vi sia alcun elemento per paventare un coordinamento o una regia unica negli incendi. Anzi, notano gli inquirenti che stanno iniziando ad orientare le loro attenzioni verso gli uffici capitolini e municipali, dietro questi roghi, al di là del potenziale dolo, c’è anche molto degrado cittadino e c’è del pari tantissima inerzia amministrativa: sterpaglie ormai avviluppate come laocoontiche mangrovie, rinsecchite e pronte a detonare portandosi dietro la scia delle fiamme, un verde orizzontale incolto, abbandonato a sé stesso, uffici giardini e dipartimenti non pervenuti, e poi la querelle ormai antica sulle depositerie e sugli sfasci, prima da spostare e rilocalizzare, poi contrordine, di indecisione in indecisione.
Vero è che Roma è un gigante dai piedi di argilla. Un agglomerato caotico e disurbanizzato non facile da governare, potendo contare su poteri che al netto della semantica da Capitale sono quelli di un usuale comune. In questo contesto, le risorse economiche e i trasferimenti finanziari riconosciuti nel corso degli anni sono andati ad infrangersi contro un sistema di governance di respiro cortissimo, contro rendite di posizione politico-feudali e contro enclave sindacali che in certi casi fanno il bello e il cattivo tempo producendo una azione paralizzante.
Il giochino di scaricare le responsabilità sulla amministrazione precedente, sempre praticato, porta poi alla evidente risultante di un degrado sempre più capillare, diffuso e irrecuperabile, che ormai avviluppa con le sue spire qualunque quadrante e qualunque ambito. Ed allora, mentre in Parlamento ci si gingilla con le chimere di una Roma-Regione o di poteri speciali e persino legislativi, la città viene annichilita dal calore delle fiamme, in uno scenario infernale intessuto di fumo, cenere e diossina.
Una città che ha pensato di salvarsi, la coscienza prima di tutto, con le domeniche ecologiche e che poi ha lasciato sedimentare sul suo territorio autentiche bombe ambientali che ora, tra i roghi, vanno rilasciando il loro carico di inquinamento. E pensare che ogni anno viene licenziata una ordinanza sindacale anti-incendi, al cui centro spicca proprio la necessità di cura del verde cittadino e di quello privato, al fine di evitare che i campi incolti e rinsecchiti possano farsi veicolo privilegiato di trasmissione delle fiamme: autentico specchio dei tempi, formalismo giuridico destinato a rimanere lettera morta, senza controlli e senza autentica implementazione, tanto per il gusto di dire che si è firmata una ordinanza e che gli incendi, sapendo della approvazione di quell’atto, dovrebbero avere il buongusto di non divampare.