Riparte la MotoGP e tutto è pronto per godersi una stagione che inizia con pilota italiano su moto italiana campioni in carica. Dopo tanti anni di dominio delle case giapponesi e di piloti del vivaio spagnolo, ecco che siamo noi quelli da battere. Si riaccendono quindi i motori e tutti gli appassionati sono pronti a sentire il suono gutturale del quattro tempi a cui ormai ci siamo abituati, e che per molti è l’unico suono di sempre nel Motomondiale. Ormai si parla comunemente di MotoGP, ma senza andare troppo indietro nel tempo, occorre ricordare che quelli di una certa età hanno ancora nel cuore le pazzesche 500 due tempi.
Ma che campionati erano quelli delle strillanti mezzo litro? Com’erano le moto, i piloti, le piste? E a che gare si assisteva? A round entusiasmanti o era necessario cambiare per ritrovare lo spettacolo?
L’evoluzione del motore a due tempi ci ha fatto conoscere una classe regina di altissimo livello con moto difficili da domare in mano a piloti dal grande coraggio, generosi funamboli delle due ruote. In questa configurazione il suo apice c’è stato a cavallo tra gli anni ottanta e gli anni novanta in cui era molto forte la scuola americana in contrapposizione ai nostri campioni del mondo Marco Lucchinelli e Franco Uncini, che con un titolo a testa sono stati gli ultimi italiani iridati in 500 prima dell’era Rossi. In mezzo, gli australiani Wayne Gardner con un alloro nel 1987 e Mick Doohan con i suoi cinque consecutivi dal (1994-1998). Pur comprendendo piloti di tutto il mondo, chi si è laureato campione ha sempre parlato solo due lingue, con prevalenza dell’inglese sull’italiano per i britannici, gli statunitensi e gli appartenenti al Commonwelth, tranne nel 1999 quando a vincere il primo mondiale per la Spagna fu Alex Criville sulla Honda appena lasciata dal compagno Doohan.
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Anche le case costruttrici, fatta qualche eccezione, erano tutte giapponesi e i team ufficiali Honda HRC, Suzuki e Yamaha si sono contese e spartite i campionati per oltre vent’anni, fino al cambio di categoria. Insieme alle grosse fabbriche c’erano poi telaisti come Harris o Roc a cui erano destinati i propulsori Yamaha derivanti dalle vincenti moto di Wayne Rainey, a disposizione di team privati e piloti di buon livello, che puntavano a rovinare la festa alle teste di serie con risultati e qualche buon piazzamento. Senza elettronica, c’era comunque sviluppo dei motori grazie anche ad un’artigianalità di base nel costruire una moto che fosse il più competitiva possibile. All’appello rispondono marchi come Paton, Proton e KR3, specializzati in queste moto da corsa a tal punto da non riuscire a convertirsi con la fine della classe. Poi l’esperienza di Aprilia che, dopo aver consolidato la propria qualità vincendo in 125 e 250, tentò la strada della leggerezza con un progetto 400 affidato a piloti esperti come Reggiani e Romboni, che non diede però gli esiti auspicati.
Kenny Roberts, Freddie Spencer, Eddie Lawson, Kevin Schwantz, Randy Mamola, sono alcuni dei protagonisti dell’epoca d’oro insieme a Ron Haslam, Christian Sarron, Raymond Roche, Luca Cadalora, John Kocinsky, Alex Barros, Doug Chandler e altri velocissimi piloti che hanno incendiato i cuori degli appassionati di tutto il mondo. Dopo anni di eurocentrismo, infatti, il Motomondiale ha allargato sempre più gli orizzonti oltre i confini del vecchio continente sbarcando a tutte le latitudini.
Ed è proprio dagli anni ottanta che si sviluppa questo fenomeno, aggiungendo gare al calendario ufficiale, eliminando gradualmente le tappe nei tracciati più pericolosi come il TT dell’Isola di Man, già abbandonato a fine anni settanta, chiudendo i circuiti cittadini e i tortuosi percorsi di un tempo come il Nurburgring che dai 22,810 chilometri, nel tempo è passato a un impianto da 5,148 km. Altri circuiti storici non sono più entrati in lista in favore di moderni impianti nel Sudest asiatico o nelle Americhe tanto che quelli utilizzati per la MotoGP moderna sono il risultato del processo iniziato in quel ventennio. Questo perché, nonostante le 500 fossero mezzi molto semplici, per quanto raffinati nelle geometrie e nella messa a punto, si era già fatto un importante balzo in avanti in termini di sicurezza.
Fonte: foto getty imagesEddie Lawson su Cagiva 500
Non mancava nulla alla Classe 500 per essere uno spettacolo e un campionato mondiale ai massimi livelli, ma il cambiamento attuato dai gestori insieme alle federazioni ha dato un volto completamente nuovo alla massima serie di moto da corsa su pista. Merito di scelte dei grossi marchi, uno su tutti, che hanno ufficialmente abbandonato lo sviluppo del motore due tempi in quanto non interessante ai fini commerciali.
Il passaggio è stato fintamente graduale e nella stagione di transizione datata 2002, le nuove quattro tempi debuttarono insieme alle 500 di ultima generazione per un periodo con scadenza 2006, ma si comprese subito che con il nuovo motore si sarebbero sviluppate teorie e un modo di guidare diverso, tanto da soppiantare l’esasperata messa a punto dei vecchi motori a miscela, con accorgimenti e aggiunta di elettronica alla base della produzione moderna. Anticipando il limite dato dal regolamento, l’anno dopo erano tutte 990 cc quattro tempi.
Si chiuse un’epoca e un campionato che aveva appassionato tantissimo, ma che comunque aveva avuto una flessione di interesse dovuta allo strapotere Honda e a un lasso di tempo in cui il ricambio generazionale dei piloti non sembrava all’altezza di tanti beniamini del pubblico. Con i dovuti investimenti si sarebbe potuto sollevare oltre la nebbia che si addensava intorno al circus, ma le scelte e il crescente successo della Superbike di quegli anni, gli fece cambiare rotta arrivando fino a qui. Si parte.