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Quell’illusione spazzata via in un torrido lunedì di 80 anni fa 

Lug 18, 2023

AGI – Pretendere di farsi scudo del Vaticano e della forza evocativa della cultura universale mentre da Roma il regime faceva roteare la spada di guerra, era un assurdo logico. L’illusione di preservare la Città eterna dai bombardamenti viene spazzata via nel caldo lunedì 19 luglio 1943, quando pochi minuti dopo le 11 il quartiere Prenestino viene preso di mira dalle avanguardie di una forza aerea d’attacco di quattro Group di B-17 (Fortezze volanti) della 12ª Air Force e da cinque Group di B-24 della 9ª.

A questi 270 quadrimotori si affiancano 321 bimotori appartenenti a cinque Group di B-25 e B-26 scortati dai caccia Loocked P-38 Lightnight con l’incarico di attaccare gli aeroporti di Ciampino e Littorio. Agli inizi del raid i romani erano stati a guardare, con gli occhi all’insù. Il Cupolone e il Papa non sarebbero però bastati a proteggerli; quanto all’antiaerea o alla caccia della Regia Aeronautica, ormai stremata da tre anni di guerra, non c’era da aspettarsi più nulla.

Gli americani avevano rotto gli indugi e stavolta avevano acconsentito alle richieste del ministro degli esteri Anthony Eden di colpire Roma dal cielo, poiché non si poteva continuare a far finta che la capitale italiana continuasse ad avere una patente di immunità. Mussolini avrebbe potuto risparmiarle il trattamento che da tempo gli Alleati riservavano a Berlino se l’avesse smilitarizzata, e invece tutti i centri di comando erano stati tenuti nell’Urbe.

Era talmente diffusa l’idea di intangibilità che nel 1942 aveva fatto inviare armi anticarro e antiaeree destinate alla difesa di Roma in Russia, poi ci aveva ripensato, ma comunque senza alcun effetto pratico. Nella notte tra domenica e lunedì, alcuni bimotori Wellington della Raf avevano sorvolato la città e lanciato 80.000 volantini nei quali c’era scritto di allontanarsi dal perimetro urbano e di stare lontani dagli obiettivi militari.

È una cifra irrisoria rispetto alla popolazione residente. Non c’era quindi alcun effetto sorpresa. Il comandante supremo del settore mediterraneo, Dwight Eisenhower dal momento dello sbarco in Sicilia aveva detto chiaramente che nessun monumento valeva la vita di un solo soldato americano. Su Roma aveva avuto qualche scrupolo, soprattutto per la presenza del Papa e di uno Stato neutrale, e comunque intendeva risparmiare il centro storico, le vestigia dell’antichità e naturalmente il cuore della cristianità. Ma c’era una guerra da vincere e colpire duro nel “ventre molle d’Europa” significava abbreviare quel conflitto spingendo l’Italia alla resa.

Per colpire Roma si è pianificato tutto

I piloti e i puntatori sono stati scelti accuratamente tra i migliori, esonerando sia i cattolici che ne avevano fatto richiesta sia i protestanti più dichiaratamente antipapisti. Si doveva fare un’operazione chirurgica, non un bombardamento a tappeto classico. Quel 19 luglio Mussolini non è a Roma: si trova a Villa Gaggia, nei pressi di Feltre, per un incontro al vertice con Hitler.

Il capo di stato maggiore generale Vittorio Ambrosio gli ha detto che con quella guerra occorre farla finita, che l’Italia non ce la fa più, e lui si è ripromesso di convincere il Führer dell’impossibilità di proseguire la lotta. Nel Paese sta crescendo il malumore e anche la fronda interna. Verso mezzogiorno il segretario particolare Nicola De Cesare porta un foglio da consegnare al Duce.

L’ambasciatore Dino Alfieri, che è presente, racconta così l’accaduto: “Mussolini lo lesse rapidamente, costringendo Hitler a interrompersi, e lesse, traducendola in tedesco, la breve comunicazione: ‘In questo momento il nemico sta violentemente bombardando Roma”. Una pausa di silenzio. Hitler restò impassibile. Mascherava, con la testarda dissimulazione teutonica, solo capace di irrigidirsi e di farsi più dura, un’emozione sincera per la città che egli ammirava con sentimento profondo e un poco retorico, quale è di tutti coloro che del mondo classico non furono né saranno mai eredi? Ricordava la dichiarazione solenne fatta più volte a Mussolini, che se il nemico avesse osato lanciare una sola bomba su Roma e su Firenze, egli aveva già preventivamente ordinato e tutto predisposto perché una squadriglia da bombardamento dovesse radere al suolo una città nemica? ‘Voglio avere notizie particolareggiate‘, ordinò Mussolini al suo segretario. ‘Ho cercato di farlo. Ma a Roma i telefoni sono isolati: non abbiamo una linea diretta; le comunicazioni sono praticamente impossibili’. ‘Insistete’, ordinò Mussolini contrariato”.

Hitler è abituato ai bombardamenti sulla Germania e, dopo quell’interruzione, riprende a parlare come nulla fosse. “Mussolini cominciava a dare segni di impazienza e di nervosismo. Riapparve De Cesare; Mussolini gli strappò quasi il foglio dalle mani e, interrompendo Hitler, disse ad alta voce, in tedesco: ‘Il violento bombardamento continua; circa 400 apparecchi volano a bassissima quota; quartieri della periferia ed anche edifici del centro gravemente colpiti; scarsa reazione delle batterie antiaeree‘. Silenzio. Mussolini rivolto ad Ambrosio: ‘Bisogna dare comunicazione di ciò nell’odierno bollettino di guerra. Tutta l’Italia e il mondo devono sapere…’. ‘Per oggi non siamo più in tempo’. ‘Si ritardi la diramazione del bollettino, ma è necessario dare ampi particolari: la durata del bombardamento, il numero degli apparecchi, la reazione delle artiglierie, il contegno stoico della popolazione. Non bisogna pubblicare per adesso il numero – neppure approssimativo – delle vittime'”.

Le bombe continuano a colpire la Capitale

Alle 13 la riunione di Feltre si chiude. Mussolini non è riuscito o non  ha voluto dire una sola parola a Hitler. Roma verrà bombardata anche nel pomeriggio. Centinaia e centinaia di tonnellate di bombe devastano i quartieri Prenestino, Tiburtino, Tuscolano e San Lorenzo.  I puntatori hanno fatto quel che hanno potuto, ma i Norden non sono certo quell’esempio di precisione millantato con la vanteria di poter inquadrare e colpire esattamente un ‘barile di sottaceti’.

Dal cielo sono piovute in successione bombe da 500, 1.000 e 2.000 libbre ad alto potenziale (con l’esplosivo Rdx). L’allarme era risuonato attorno alle 10, ma era difficile trovare un rifugio a Roma. L’effetto  dell’attacco è stato scioccante. I quartieri bombardati sono avvolti da un fumo giallastro: case sventrate, corpi dilaniati, strade devastate, fuoco e polvere dappertutto.

I numeri dell’attacco

Il primo bilancio ufficiale, il 22 luglio, fisserà in 717 i morti e in 1.599 i feriti, ma la cifra dei caduti raddoppierà. Il Bollettino n. 1150 era stato neutro, perché non si sapeva nulla di preciso; quello n. 1151 del 20 luglio  ha invece questo tono: “I danni arrecati dalle formazioni americane, che con alcune centinaia di quadrimotori hanno ieri durante tre ore attaccato Roma, sono ingenti. Risultano, tra gli altri, gravemente colpiti e in parte distrutti edifici sacri al culto e alla scienza e quartieri di abitazioni operaie; in particolare la basilica di San Lorenzo, il Cimitero del Verano, la città universitaria, il complesso ospedaliero del policlinico, i caseggiati popolari delle zone Prenestina e Latina. Il numero delle vittime civili finora accertate ascende a 166 morti e 1.659 feriti. Durante e dopo l’incursione la popolazione ha dato esempio di disciplina e calma. Sette velivoli sono stati abbattuti dalle artiglierie contraeree e uno dalla caccia”.

La basilica di San Lorenzo fuori le Mura, che godeva di extraterritorialità, era stata ridotta in rovina: diventerà simbolo del martirio di Roma  quando Pio XII, eccezionalmente uscito dal Vaticano in automobile, allarga le braccia, poi congiunge le mani in preghiera, si inginocchia e intona il De profundis. Anche Vittorio Emanuele III e la regina Elena non avevano fatto mancare la loro presenza, e avevano fatto distribuire un milione di lire alle “famiglie indigenti della capitale, colpite dalle incursioni aeree”.

Il vecchio re già da tempo sta rimuginando su come liberarsi di Mussolini e del fascismo, e adesso che vede con i suoi occhi la tragedia dell’Italia sa che non si può più titubare. Sta scattando un precipitoso conto alla rovescia, fissato per il 24 luglio, con la convocazione del Gran Consiglio del fascismo.

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