Chi vive in città lo ha visto mille volte. Una sedia di plastica piantata in mezzo allo stallo, un cono recuperato chissà dove, un secchio arrugginito a fare da guardiano del posto, o addirittura una persona che si piazza nel parcheggio, braccia allargate, e pronuncia la frase rituale: “Qui è occupato, lo sto tenendo”. Nella testa di chi lo fa c’è una convinzione radicata: se quella porzione di strada è davanti a casa, sotto l’ufficio, accanto alla saracinesca del proprio negozio, allora quel posto auto è più suo che degli altri.
La legge non ragiona così. Dal punto di vista giuridico, uno stallo di sosta su strada pubblica è parte del suolo pubblico, cioè di uno spazio che appartiene alla collettività e che viene amministrato dall’ente proprietario della strada, di solito il Comune. L’unico vero diritto che il singolo automobilista ha su quello spazio, salvo casi particolari, è poterlo usare in condizioni di parità rispetto agli altri, nel rispetto delle regole fissate dal Codice della Strada. Chi arriva per primo e parcheggia può occupare il posto. Chi arriva dopo ha una sola opzione sana: cercarne un altro.
La consuetudine non crea un diritto soggettivo. Il fatto di aver parcheggiato per dieci anni nello stesso punto, di essere nato in quella via, o di pagare un affitto salato per l’immobile davanti allo stallo non trasforma quel rettangolo di asfalto in un’estensione del proprio cortile. La pretesa di tenere il posto che sia con oggetti o con il proprio corpo vive in questa distorsione psicologica: confondere l’abitudine con un potere giuridico che non esiste.
Il problema è che questa pretesa non rimane sul piano del costume. In molti casi si intreccia con le norme su occupazione della sede stradale, sicurezza della circolazione, violenza privata, invasione di terreni o edifici. Il gesto che a qualcuno sembra solo una furbizia si colloca dentro una rete di divieti, sanzioni, possibili reati e responsabilità civili.
Cos’è suolo pubblico e perché non si può farne ciò che si vuole
Per capire perché non si può riservare da solo un posto auto, bisogna partire dalla nozione di suolo pubblico. Strade, marciapiedi, spazi di sosta e piazze sono beni appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile degli enti pubblici. Non sono “di nessuno”, ma sono di tutti, amministrati da un soggetto, di solito il Comune, che decide come si circola, dove si parcheggia, quali regole si applicano, come si disegna la segnaletica.
In questa logica, lo stallo di sosta non è altro che una porzione di sede stradale temporaneamente destinata a ospitare un veicolo. Finché è vuoto, nessuno può vantarvi un diritto preferenziale. Nel momento in cui un’auto si ferma e parcheggia nel rispetto delle regole – niente strisce gialle, nessun divieto, nessuna zona riservata – quell’auto gode dell’uso esclusivo dello spazio, fino alla ripartenza.
L’unico soggetto che può trasformare uno stallo da “di tutti” a “riservato a qualcuno” è l’ente proprietario della strada, attraverso ordinanze, provvedimenti e segnaletica ufficiale. È così che nascono i posti per persone con disabilità, gli stalli di carico e scarico, le zone per residenti, i parcheggi riservati a specifiche categorie (medici, forze dell’ordine, car sharing). Non è il singolo cittadino a decidere che un posto è suo: è l’ente pubblico che introduce una deroga alla regola della parità di accesso.
Quando un privato si comporta come se potesse concedersi da solo un posto su suolo pubblico, sta di fatto usurpando una prerogativa che non gli compete.
Oggetti “tieni-posto” e l’articolo 20 del Codice della Strada
La forma più evidente di tenuta del posto auto è l’uso di oggetti: sedie, sgabelli, secchi, cassette, vecchie gomme, coni di fortuna. Dal punto di vista giuridico non ci sono quasi zone grigie. L’articolo 20 del Codice della Strada vieta l’occupazione della sede stradale senza autorizzazione. Ogni volta che un privato colloca cose sulla carreggiata, sulla banchina, sul marciapiede o in uno stallo di sosta, sta interferendo con l’uso pubblico dello spazio.
Il Codice della Strada prevede che qualunque occupazione di suolo stradale richieda una concessione o autorizzazione dell’ente proprietario. È la stessa logica che si applica ai dehors dei bar, alle impalcature dei cantieri, ai mercati rionali, ai traslochi con furgoni e piattaforme per cui si chiede una riserva temporanea di posto. Chi lo fa legalmente presenta domanda al Comune, ottiene (se concessa) un’autorizzazione, paga un canone o una tassa, rispetta tempi e modalità. Chi mette una sedia per tenersi il posto, no.
L’occupazione abusiva della sede stradale è punita con una sanzione amministrativa e comporta la rimozione d’ufficio degli oggetti. Non è raro che i regolamenti locali prevedano, oltre alla multa, il recupero delle spese di sgombero, addebitate a chi ha piazzato il materiale in strada. Anche un singolo oggetto, se messo lì con la finalità di impedire il parcheggio, integra l’illecito.
In più, quando l’occupazione si fa stabile, massiccia e organizzata, ad esempio con la collocazione di paletti fissati in modo permanente, catene bullonate a terra, strutture fisse che delimitano un’area privata” sulla strada, la questione smette di essere solo amministrativa. A quel punto si può sconfinare nell’invasione di terreni o edifici prevista dal Codice penale perché il soggetto non sta più solo intralciando il traffico: sta appropriandosi di uno spazio pubblico come se fosse suo.
Il vuoto parziale del Codice della Strada
Più insidiosa è la pratica di occupare lo stallo con il proprio corpo, in attesa dell’auto di un conoscente. Qui non ci sono oggetti da sanzionare ai sensi dell’articolo 20 e la tentazione di molti è pensare di muoversi in una sorta di terra di nessuno, uno spazio dove “tanto non possono farmi niente”.
Sul piano strettamente amministrativo è vero che il Codice della Strada fa riferimento all’occupazione con cose, strutture, materiali e non con persone. Un pedone che sosta dentro un parcheggio non viene richiamato dall’articolo 20. Ma questo non significa che il suo comportamento sia neutro o privo di conseguenze. Ci sono altre norme, sia nel Codice della Strada sia nel Codice penale, che guardano non a cosa occupa lo spazio, ma a quale effetto produce sulla libertà di movimento degli altri.
Se un automobilista trova un posto libero e vuole parcheggiare, ha il diritto di farlo se non infrange alcun divieto. Quando una persona si piazza nello stallo e, magari con atteggiamento ostinato, impedisce di utilizzare lo spazio, sta costringendo a modificare il proprio comportamento: rinunciare a parcheggiare lì e andare altrove, oppure mettersi in una situazione di conflitto. Questa dinamica è ciò che l’articolo 610 del Codice penale definisce come violenza privata: la condotta di chi, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare o omettere qualcosa contro la loro volontà.
Non serve un’aggressione fisica. La giurisprudenza riconosce la violenza privata anche in condotte apparentemente passive come bloccare con un veicolo il passo di un altro, o occupare lo stallo riservato ai disabili, costringendo la persona che ne ha diritto a rinunciare all’uso del posto. In questi casi il mezzo usato per esercitare pressione sull’altro non è il pugno, ma l’ostacolo. E un corpo messo di traverso è un ostacolo come un cofano messo di traverso.
E nelle proprietà private?
Il quadro cambia quando ci si sposta dal suolo pubblico alle aree private: cortili, parcheggi condominiali interni, garage, spazi di pertinenza esclusiva. Qui non governa più il Codice della Strada (se lo spazio non è aperto al pubblico), ma il Codice civile, i regolamenti condominiali, i contratti di proprietà e di locazione.
Ad esempio nel cortile di un condominio potrebbe esserci un posto auto assegnato per ogni unità immobiliare, oppure una zona a parcheggio libero regolata da un’intesa tra i condomini. In alcuni casi ci sono vere e proprie servitù di parcheggio, riconosciute come diritti reali dalla giurisprudenza: il proprietario di un appartamento ha il diritto di usare quello spazio per la sosta del proprio veicolo. In queste situazioni, parlare di “mio posto” ha senso perché esiste un titolo che lo attribuisce.
Se un vicino occupa abusivamente il posto interno, il Comune non interviene a multarlo con il blocchetto del vigile. La controversia non è più tra cittadino e pubblica amministrazione, ma tra privati. Gli strumenti diventano diffide, richieste formali, deliberazioni assembleari, fino alle azioni civili davanti al giudice per far rispettare i propri diritti..
Attenzione però a non fare confusione. Il fatto che si abbia un posto di proprietà nel cortile non autorizza a esportare lo stesso schema sulla strada. Si può pretendere che lo spazio privato non sia occupato da altri all’interno della proprietà. Non si può pretendere che un pezzo di strada davanti al cancello diventi automaticamente un’estensione del proprio diritto.
Cosa rischia chi tiene un posto auto
Se si usano oggetti per bloccare il parcheggio, l’illecito è l’occupazione abusiva della sede stradale, con multa e possibile rimozione del materiale a spese di chi l’ha collocato. Se la riserva del posto assume forme stabili, strutturali, apparentemente permanenti, si affaccia l’ipotesi dell’invasione di terreni o edifici. A quel punto non si è più solo di fronte a una violazione amministrativa del Codice della Strada, ma a un comportamento penalmente rilevante. Occupare, senza titolo, uno spazio pubblico in modo continuativo e ostinato significa sottrarlo alla collettività e usarlo come se fosse proprio. Qui non si parla più di semplice multa, ma di processo penale, con possibili condanne e fedina penale intaccata.
Sul fronte delle liti da parcheggio lo scenario si è fatto negli anni più severo. Bloccare intenzionalmente un veicolo, impedire l’accesso al cortile, occupare lo stallo di un disabile, rifiutarsi di spostare l’auto o il proprio corpo per costringere l’altro a modificare il proprio comportamento sono stati definiti come forme di violenza privata.