A leggerle tutte ci vuole un po’ di tempo, perché sono circa 500 pagine fitte di dati ed indicazioni: ma alla fine, il senso si riduce a poche parole, agghiaccianti nella loro cristallina semplicità, che sembrano inchiodare a precise responsabilità le persone che avrebbero dovuto controllare la struttura: «Crollo causato dalla corrosione di un tirante e controlli inadeguati».
La perizia verrà discussa in ambito processuale: le udienze del processo riprenderanno il prossimo gennaio, quando la parola passerà ai consulenti di accusa e difesa.
La tragedia del 14 agosto 2018, che provocò causò 43 vittime, è analizzata nei dettagli dalla perizia redatta a seguito del secondo incidente probatorio, destinato a stabilire le cause del crollo.
Nel verbale si legge che furono «ignorate le indicazioni dell’ingegner Morandi» e che «la causa scatenante il crollo è la corrosione della parte sommitale del tirante della pila 9 (…) Se i controlli e le manutenzioni fossero stati eseguiti correttamente, avrebbero impedito il crollo (…) L’esecuzione dell’intervento di retrofitting lo avrebbe evitato con elevata probabilità».
Le conclusioni della perizia, firmate dai quattro esperti nominati dal gip di Genova Angela Nutini, tutti ingegneri competenti in materia e docenti universitari (Giampaolo Rosati e Stefano Tubaro del Politenico di Milano, Massimo Losa e Renzo Valentini dell’ateneo di Pisa), confermano le prime ipotesi fatte a ridosso della tragedia: il Morandi venne giù per la corrosione dei cavi di uno strallo, che diede il via al repentino cedimento dell’intera struttura.
Come un drammatico effetto domino, «La rottura di un tirante provoca la rottura della simmetria che attiva il collasso»: collasso causato dalla rottura del tirante dovuto alla corrosione, a sua volta non contrastata dalla scarsa manutenzione generata da inadeguati controlli e ispezioni.
Ovviamente la perizia chiama direttamente in causa la (mancata?) gestione della struttura da parte di Autostrade: «Il gestore avrebbe dovuto avere una conoscenza adeguata di come l’opera era stata costruita, valutando la rispondenza con i documenti progettuali, cosa che avrebbe permesso di individuare il grave difetto costruttivo nell’ultimo tratto del tirante, in corrispondenza della sommità dell’antenna, consentendo di prevedere e tenere sotto controllo il processo di degrado».
Che il Ponte Morandi fosse una struttura delicata, da tenere sotto attento controllo a causa di alcuni difetti strutturali, era circostanza nota: ma alle indicazioni del progettista, che aveva più volte richiamato l’attenzione sul rischio di corrosione dell’acciaio delle strutture portanti, non erano seguiti interventi per contrastare efficacemente l’ammaloramento dell’opera.
Nel 1993 erano state sistemate le pile 9 e 10, ma da allora, come ancora rileva la perizia, «non sono stati eseguiti interventi che potessero arrestare il processo di degrado in atto e/o di riparazione dei difetti presenti nelle estremità dei tiranti che, sulla sommità del Sud-lato Genova della pila 9, erano particolarmente gravi».
E in tempi più recenti, pur in presenza di ispezioni previste dalla legge, «i sistemi di monitoraggio attuati, pur conoscendo i rischi di degrado dei materiali, non sono però risultati adeguati a individuare le criticità presenti nella parte del viadotto crollata».
Le conclusioni dei periti non lasciano troppo spazio alle interpretazioni: «È chiaramente mancato un coordinamento ingegneristico in grado di raccogliere e confrontare tra loro tutte le informazioni disponibili che, seppur incomplete, dovevano destare un ben maggior allarme sullo stato dell’opera».
Parole che, immaginiamo, avranno un effetto devastante sui parenti delle vittime, aggiungendo rabbia a dolore.