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Pietrogrado, quel febbraio 1917 di rabbia e fuoco: e la rivolta diventò rivoluzione

Feb 3, 2017

SAN PIETROBURGO – Sembrava un febbraio qualsiasi, solo più freddo e affamato, quando le ragazze e le vecchie operaie uscirono alle sei di sera dal portone della filatura di cotone “Krasnaja Nit”, Filo Rosso. Undici minuti dopo tramontava un sole che non c’era, quel mercoledì, allargando il gelo dei meno 20 sulle fabbriche di Vyborg e portando su Pietrogrado il buio inconsapevole dell’ultima notte prima del naufragio che avrebbe affondato il mondo fino ad allora conosciuto.

Si può attraversare quel portone anche oggi, come se fosse una macchina del tempo aperta sulla storia grandiosa e terribile del 1917. Entro nello stanzone d’ingresso insieme con gli ingegneri programmatori di un’azienda informatica che ha affittato il secondo piano della vecchia fabbrica, passo tra i fumi e il vapore scaricati sull’asfalto che sembrano avvolgere il secolo e confonderlo.

Cerco proprio qui l’iskra, la scintilla che ha acceso l’incendio del Febbraio, divampato da questo cortile di filatoio in tutta la Russia, cent’anni fa. Quel giorno, le ragazze avevano ancora in testa il fazzoletto del lavoro, le donne anziane alzavano lo scialle di lana fin sul capo e tiravano fuori dai cappotti la borsa del “non si sa mai” con cui erano uscite di casa al mattino, sperando di riempirla al ritorno con qualcosa da mangiare, qualsiasi cosa. Poiché in Russia la coda chiama coda, è un allarme e una calamita, molte si fermarono al primo assembramento davanti a un negozio di alimentari e verdura, dov’erano finite le patate e qualcuno chiedeva alla folla in attesa se almeno era ricomparso lo zucchero

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Quasi tutte andarono più avanti, cercando nel grande viale il forno più vicino, perché in fabbrica si era sparsa la voce che il generale Chabalov, comandante della regione, il mattino dopo avrebbe fatto scattare il razionamento del pane e della farina. Ore in coda al buio sul marciapiede, nel gelo, tra le voci più incontrollabili, come quella del burro salito a 4,3 rubli al chilo vicino al giardino Botanico, dello sciacallo sgozzato sulla Ligovskaja perché vendeva un litro di petrolio a 5 rubli, del pane nero di segale che prima costava 17 kopeki al chilo e proprio quel pomeriggio era comparso a qualsiasi prezzo solo nel quartiere Vasilevsky, per sparire subito, come dovunque in città.

La rabbia, il timore e la fatica di quella notte entreranno in fabbrica, il mattino dopo. Le donne che portano il peso del lavoro, della famiglia e del cibo che manca si ricordano che il 23 febbraio russo corrisponde all’8 marzo del calendario occidentale, il giorno della loro festa rovesciata in disgrazia. Decidono che non ne possono più dopo un giorno e una notte passati a inseguire il fantasma del pane russo, con la crosta scura e screpolata di farina che nei racconti di Nina Berberova ricorda il volto rugoso delle vecchie. Staccano gli impianti, chiamano allo sciopero gli uomini delle officine Putilov che da settimane chiedono un aumento di salario che non arriva. Escono sulla strada, girano l’angolo e quando sboccano sul Prospekt Sampsonievskij non sanno che proprio lì – a pochi metri da dove oggi c’è la concessionaria Bentley – si stanno affacciando sulla prima ora della rivoluzione.

Pietrogrado, quel febbraio 1917 di rabbia e fuoco: e la rivolta diventò rivoluzione

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Il giorno del destino fu scelto per caso, senza sapere che sarebbe stato l’ultimo giovedì dell’impero. Le donne puntavano soltanto a raggiungere il centro, non a entrare nella storia. Pensavano di arrivare sul Nevskij per sfilare con la loro protesta davanti ai negozi di lusso e ai palazzi principeschi, salire fino alla cattedrale di Kazan per dire a Dio e allo Zar che volevano il pane, com’era scritto sugli striscioni improvvisati in cui si riconosceva un’intera città eccitata da un caos ipnotico e tutto un Paese stremato da una guerra che aveva mobilitato 12 milioni di uomini per perderne 1 milione e 800 mila in un solo anno. Dovunque, alle operaie in strada si aggiungono gli studenti, gli uomini delle fonderie di Vyborg senza lavoro per la serrata, le madri di famiglia che reclamano cibo, i passanti infuriati con gli speculatori.

La paura spinge la polizia a sbarrare i negozi man mano che si avvicina la protesta ma invece di svuotarsi, il cuore della capitale si riempie. I dimostranti diventano migliaia, urlano contro il governo, camminano tra gli applausi ma quando lasciano il quartiere operaio per entrare in centro, trovano il ponte Litejnyj chiuso con le barriere dei gendarmi e i “faraoni” – i poliziotti – schierati con la baionetta innestata. Soprattutto, vedono i cosacchi, le truppe zariste scelte per ogni repressione, alti sui loro cavalli del Don, con in testa la nera papakha in pelle d’agnello e soprattutto con le cartucciere minacciose cucite a tracolla sui caftani rossi.

Una vicenda storica durata trecento anni rimane per un lungo momento incerta tra il compiersi e il disfarsi, e non c’era luogo più adatto per questa sospensione della storia che un ponte di Pietrogrado, la città protesa “come un’aquila” sulla Russia – diceva Pietro il Grande – anch’essa ponte tra Mosca e l’Europa.

Quando il corteo avanza, suona la tromba militare sul Litejnyj che scavalca la Neva ghiacciata. Ma nonostante l’ordine i cosacchi non caricano, non alzano i frustini sulle donne in sciopero: si limitano a spingere i cavalli in mezzo alla folla che si apre e subito si richiude alle loro spalle, continua a camminare, arriva fino alla Duma e davanti al parlamento si ferma, quasi come se la rivoluzione sapesse che cosa voleva e cosa cercava, prima ancora di essere battezzata e riconosciuta.

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In realtà il potere aveva un piano di contrasto, definito nei dettagli. Il gelo che paralizza i trasporti e blocca i rifornimenti, il malcontento nelle officine per gli arresti a fine gennaio di tutto il Gruppo Operaio per “associazione criminale mirante a creare una repubblica socialista”, la paura per le infiltrazioni dei bolscevichi nell’esercito, inquietano il governo del principe Golizyn e spingono lo Zar a dare poteri speciali al generale Chabalov aumentando la guarnigione fino a 160mila unità. Con il ministro degli Interni Protopopov che in quei giorni indossa addirittura l’uniforme di Capo della Gendarmeria e cova il piano segreto di soffiare sul fuoco della rabbia operaia per suscitare torbidi, soffocarli nel sangue e poi approfittare della crisi per arrivare ad una pace separata con la Germania.

Ma la ribellione di Pietrogrado prende un’altra strada, imprevedibile come i due sentimenti spontanei che si fronteggiano sui ponti della città. Non ci sono infatti due organizzazioni a confronto, con l’esercito da un lato e il mondo delle fabbriche dall’altro, ma due pezzi di popolo l’uno senza più appartenenza e l’altro ancora senza ideologia. Le operaie hanno deciso da sole di protestare in strada, scavalcando le formazioni rivoluzionarie che si troveranno a inseguire la rivolta dopo i primi giorni, non a guidarla: e i soldati sono in gran parte riservisti o giovani allievi che non hanno alcun addestramento anti-sommossa, temono di essere spediti al fronte, sanno presidiare un ponte ma non vogliono caricare la folla.

La guerra e la lontananza della Corte, intanto, hanno logorato l’autorità di un sovrano freddo e distante fino a sembrare insensibile, consumando anche il giuramento militare di fedeltà all’Imperatore, soprattutto in una città vacillante dove tutto scorre nel moto dei canali e solo la pietra è immobile. Il sacro legame tra la Corona e la Russia si disgiunge nel sacrilegio, quando il potere lascia il popolo nella paura ancestrale della fame.

Providenie, la provvidenza russa, fa il resto, e il mattino dopo – il 24 – è un venerdì pieno di sole col termometro che si alza e assemblee spontanee nelle mille fabbriche della città, dove gli operai non entrano nemmeno nei reparti. Centocinquantamila si rimettono in marcia verso il centro di Pietrogrado, di nuovo con le donne in testa. Gli uomini hanno in mano spranghe di ferro, cacciaviti, chiavi inglesi, gli slogan diventano politici, chiedono libertà, qualcuno urla contro la guerra.

A qualche decina di metri dal teatro Mariinskij, dove pochi giorni prima per salutare la missione alleata guidata da Lord Milner era risuonato per l’ultima volta l’inno imperiale, adesso molti cantano la Marsigliese che fa il suo ingresso in Russia, la terra del potere assoluto: “Rinunciamo al vecchio mondo, gettiamo la sua polvere ai nostri piedi, non adoriamo più il sacro vitello d’oro “.

Di fronte a una massa così imponente, dove spuntano le prime bandiere rosse, il potere organizza uno sbarramento rinforzato. Non si passa. Ma la spontaneità della protesta sfugge alle mappe militari. Uomini e donne scendono sul letto della Neva gelata, camminano sul fiume e si radunano in piazza Znamenskaja, di fronte alla stazione, da dove invadono le strade in tutte le direzioni. I soldati controllano la folla, parlano con le ragazze, non puntano le armi. Arriva la notizia che sono stati saccheggiati negozi, bloccati tram, rovesciate carrozze. La polizia a cavallo sguaina le sciabole, c’è qualche ferito, ma la giornata finisce tra comizi e arringhe improvvisate di un popolo di sudditi che trova la parola prima ancora della libertà, con i cosacchi che passano a due a due sui cavalli e accettano di bere dalla bottiglia offerta dai ribelli, circondati da cartelli che dicono “Basta col governo”, “Via Protopopov” e addirittura “Viva la Repubblica”.

Ormai la folla sta diventando un organismo collettivo, con decisioni comuni e un solo istinto. Quando scende il buio si ritrae, forse per timore di un attacco. E con la notte riappaiono i fantasmi, in una città senza elettricità ma comunque elettrica e già infuocata, senza trasporti ma riversata in strada, dove tutto sta accadendo e non si sa cosa sia. Tornano le paure, s’inseguono le voci. Dicono che gli infiltrati dell’Okhrana – la polizia segreta – vogliono disordini sanguinosi, raccontano di spie tedesche che manovrano per la pace, rivelano che bande di ladri camuffati da agenti organizzano false perquisizioni per sequestrare cibo e gioielli. Danno notizia di un assalto a un deposito di liquori a Vasilevskij Ostrov, del furto di mantelli nel guardaroba di un teatro del popolo, dell’assalto degli operai alla fabbrica del Litejnyj 3, dove hanno saccheggiato quel che hanno trovato.

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Poi, le leggende figlie di un’atmosfera surreale, come se si percepisse uno squarcio nell’epoca, un’incognita della storia in cui tutto può succedere perché nulla è impossibile e l’incredibile diventa il quotidiano. Ecco le croci bianche che qualcuno disegna di notte sui muri di qualche casa, come se volesse segnalare quelle famiglie. Ecco le “automobili nere” che compaiono senza targa e con le luci spente in via Povarskaja dove tre pistole escono dai finestrini per sparare nel buio, o in via Vozdvizhenka dove viene colpito un poliziotto e ferito lo studente Shapovalz. Poi si dileguano e corrono fino all’alba nelle chiacchiere e nell’insonnia di Pietrogrado.

Incredibilmente, l’Imperatore non crede alla febbre che brucia la capitale, anche se tutto intorno a lui barcolla. Sedici granduchi chiedono all’ex comandante in capo dell’esercito, Nikolaj Nikolaevic, di mettersi alla guida di un golpe, ma lui rifiuta. I rapporti di polizia sono sempre più allarmanti: “La rabbia cresce, gli umori inquietanti dei rivoluzionari clandestini arrivano al proletariato con la propaganda. Dopo le manifestazioni spontanee vedremo eccessi inesorabili, fino alla terribile rivoluzione “. Nella reggia di Zarskoe Selo tredici giorni prima del caos arriva il presidente della Duma, Mikhail Rodzjanko, con un appello disperato che sembra un ultimatum: “Bisogna cambiare tutto, le persone e il sistema di governo. È urgentissimo, non si può rimandare”. Ma si accorge che lo Zar sta pensando di sciogliere la Duma (tanto che consegna al governo un ukaz già firmato, con la data in bianco) e capisce che tutto è finito: “Non passeranno tre settimane che scoppierà una rivoluzione tale da spazzare via ogni cosa. E voi non potrete più regnare”.

Come se fosse il sovrano solitario di un regno impalpabile e parallelo, proprio a poche ore dall’inizio della fine lo Zar parte per il quartier generale di Mogilev, lasciando una capitale che sta divorando l’impero. “Hai un aspetto così stanco, così esaurito, Dio ti ha mandato una croce veramente terribile – gli dice il biglietto che trova in treno firmato da Alix, la Zarina – . Fa’ sentire il tuo pugno, l’amore non basta, devono imparare a temerti, mio piccolo Sole”. “Stai tranquilla – risponderà Nikolaj – non lo dimentico, ma non è necessario mostrare continuamente i denti a tutti”. È il 23 febbraio, quel giovedì fatale, e il diario dello Zar testimonia quel giorno la distanza non solo fisica, ma emotiva, culturale, politica, sentimentale dall’epicentro del cataclisma: “È stata una fredda giornata di sole…”.

Soltanto il giorno dopo Nikolaj II saprà della rivolta, derubricata dal telegramma della Zarina: “Mio preziosissimo amore, ieri ci sono stati dei disordini. Sull’isola Vasilevskij e sul Nevskij Prospekt dei poveri diavoli hanno assaltato un forno del pane. Hanno completamente raso al suolo il negozio di Filippov e contro di loro sono stati chiamati i cosacchi”. Ancora un giorno, e un nuovo telegramma: “Mio caro, scioperi e disordini sono solo delle provocazioni. Si tratta solamente di teppisti, ragazzini e ragazzine che corrono gridando di non avere pane per creare agitazione, e di operai che impediscono ad altri di lavorare. Comunque se la Duma si comporterà bene, tutto pas- serà e tornerà la calma”.

Quel giorno, sabato 25, a Piter i “disordini” mutano in rivoluzione, i “ragazzini” diventano insorti, le “provocazioni” si trasformano in politica, i “poveri diavoli” si accorgono all’improvviso che possono conquistare il potere, e incredibilmente lo vogliono. “Siamo davanti a una sollevazione popolare “, dice il governatore della città, Balk. L’operaio Kajurov, che guida il Comitato di Vyborg, vede arrivare i bolschevichi, i socialrivoluzionari, e sente cambiare di tono gli slogan urlati da 240 mila dimostranti: “No alla guerra”, “Abbasso l’autocrazia “, “Via lo Zar”.

Presto la città è paralizzata, diventa puro paesaggio di quel che accadrà. Verso mezzogiorno per interrompere i comizi davanti alla cattedrale di Kazan la polizia apre il fuoco, ferisce un operaio, la folla risponde lanciando bottiglie, pezzi di ghiaccio, granate. Al ponte il capo della Polizia Salfeev spinge il cavallo a caricare la massa che avanza ma viene disarcionato, gettato a terra, colpito alla testa con un bastone finché gli sparano al petto. I cosacchi guardano senza intervenire. Gli operai corrono da loro, si calano il berretto, li chiamano “fratelli”, le donne urlano di togliere le baionette dai fucili. Tutti portano notizie confuse. Un corteo sta assaltando i negozi sul Gostinyj Dvor, dove un drappello di dragoni spara e abbatte tredici persone. In piazza Znamenskaja avviene la svolta: quando la polizia a cavallo punta le pistole, una sciabolata taglia di netto la testa a un “faraone”: i cosacchi sono passati con gli insorti, la sommossa è ormai rivoluzione.

Nella notte, un telegramma dello Zar a Chabalov ordina di “soffocare la rivolta entro domani”. Ma al mattino di domenica, il 26, quando Protopopov porta un’icona sacra alla Duma chiedendo aiuto al cielo, è troppo tardi. La polizia prima dell’alba ha provato ad arrestare quasi cento attivisti rivoluzionari e tutto il Comitato bolscevico, ma la guida del movimento è ormai in mano agli operai di Vyborg. Quando arrivano verso il centro, trovano picchetti, sbarramenti, blindati, e soprattutto grappoli di mitragliatrici sulle scalinate, sui tetti, per controllare il Prospekt Nevskij e le vie di accesso.

È chiaro che ormai lo scontro è militare. Il nemico è la polizia, ma la partita è in mano all’esercito. Cosa faranno i soldati? La folla avanza, i gendarmi aprono il fuoco sul Prospekt Vladimir, lungo il Gostinyj Dvor, in piazza Znamenskaja, ci sono almeno 40 morti e decine di feriti. La folla va davanti alle caserme dei reggimenti che hanno sparato, il Pavlovskij, il Volynskij. In migliaia urlano verso le finestre, tra il suono delle ambulanze di una città impazzita, mentre scende la notte sul quarto giorno. Una notte inverosimile, con la borghesia e i Gran Principi che riempiono il teatro Mariinskij per la prima (e ultima) di Maskarad, il “Ballo in maschera” di Lermontov, dove in scena si mette a morte la dorata nobiltà imperiale, che dai palchi applaude la profezia in musica, circondata da una piazza deserta e livida nel buio.

Quando gli operai arrivano nel quartiere militare, il lunedì mattina, le caserme si stanno già ammutinando. Prima si ribella la Quarta Compagnia del reggimento Pavlovskij, alle sette del mattino gli allievi del Volynskij uccidono il comandante, poi tocca al Litovsky e al Preobrazhensky saccheggiare l’armeria e portare fucili e pistole Browning agli insorti. La notizia della diserzione di massa corre per tutta Pietrogrado. Salta l’Arsenale, escono 40mila fucili. Si spara dovunque, colpi in strada, per aria, dalle finestre, contro i cecchini appostati sui campanili di via Sergievskaja. Brucia il Tribunale, s’incendia la sede della polizia segreta, salgono le bandiere rosse sul palazzo dei principi Jusupov e su quello del Granduca Kirill. Senza ufficiali – in fuga – le truppe seguono la folla che spalanca le prigioni tra gli applausi, poi la sopravanzano e la guidano verso l’unico e ultimo centro di autorità ancora in piedi: la Duma a palazzo Tauride.

Diventata rivoluzione, la rivolta quasi chiede di essere guidata, e al suo quinto giorno cerca il cuore politico della Russia. Lo trova, esangue e moribondo, oltre le sei colonne doriche di Tauride, il palazzo favoloso del principe Potëmkin, favorito di Caterina II. Ciò che resta della Duma, con lo scioglimento sospeso, sta boccheggiando in queste stanze, incapace anche di decidere una seduta pubblica d’emergenza. Il presidente Rodzjanko cerca ancora di convincere lo Zar, con due telegrammi disperati: “La capitale è in mano all’anarchia – scrive il 26 – il governo paralizzato, le polizie si sparano tra di loro, è necessario un nuovo governo con la fiducia, ogni ritardo significa la morte. Prego Iddio perché in quest’ora la responsabilità non ricada sul Sovrano”. Inutilmente. Il giorno dopo l’ultimo messaggio all’Imperatore: “La situazione peggiora, bisogna adottare misure urgenti, domani è troppo tardi. È giunta l’ora estrema in cui si decide il destino della patria e della dinastia”. Silenzio. Nell’ala grande del palazzo finalmente il Consiglio degli Anziani decide di far nascere un Comitato Provvisorio con pieni poteri, embrione di un primo timoroso governo non scelto dallo Zar, con tutti i partiti meno l’estrema destra, e fa entrare i soldati ribelli a presidiare la Duma dall’interno.

Ma intanto due dirigenti menscevichi appena liberati dalla prigione Kresty si incontrano a Tauride con i deputati del “Blocco Progressista”. Si fanno dare le chiavi della sala 13 e dell’ufficio 12, e qui nasce quella notte il Comitato Esecutivo del Soviet Operaio di Pietroburgo. Per un testa-coda della storia, il Soviet prende forma in un palazzo simbolo dell’assolutismo, dove il Principe si mostrò alla grande festa dell’aprile 1791 col vestito ricoperto di diamanti e una coiffure talmente addobbata che veniva sorretta dall’aiutante di campo. Ma adesso, nella Sala Caterina c’era di tutto. Soldati, armi, viveri, munizioni, cappotti, bende, medicinali, scarpe, divise, bombe a mano, mitragliatrici, persino una macchina da cucire. Curiosi, cittadini, operai, soprattutto soldati.

Nello stesso palazzo si fronteggiano così i due nuovi poteri. Il Soviet, che controlla la guarnigione di Pietrogrado e chiede obbedienza a tutto l’esercito, cosciente della sua crescente autorità rivoluzionaria, e la Duma, che ha in mano la rete ferroviaria, quella telegrafica e l’esecutivo, ma sembra spaventata dalla sua stessa inedita autonomia post-zarista. A Tauride, in una confusione indescrivibile, arriva la notizia che anche il villaggio imperiale di Zarskoe Selo si schiera con la rivoluzione, e che la bandiera dello Zar è stata ammainata dal Palazzo d’Inverno, e al suo posto è salito un drappo rosso. Applausi, urla, pianti, spari in aria nel giardino d’inverno. Provo a rintracciare l’eco di queste voci, il fragore del 1917 sotto la cupola del palazzo, tra le 36 colonne che reggono l’enormità della sala Caterina. Non c’è più niente, solo i lampadari giganteschi costruiti in cartapesta dorata per sostenere quelle dimensioni senza peso, e le finestre da cui la folla si affacciava per vedere l’ultimo atto della rivoluzione, cent’anni fa.

Qui venivano a sottomettersi in quei giorni i battaglioni imperiali ribelli, ad uno ad uno, qui venivano a costituirsi i ministri del governo zarista, uno dopo l’altro. Qui si presentò il deputato Miljukov, capo del partito dei Cadetti, alle tre del pomeriggio: “Solo pochi giorni fa il governo russo sembrava onnipotente, ora giace nel fango, per la più corta e la meno sanguinosa tra tutte le rivoluzioni della storia. Sostituiremo un nuovo potere democratico all’antico potere caduto. Nessuno ci ha scelti, se non la rivoluzione. Quando sarà il momento ce ne andremo grati.

Quanto alla dinastia, l’antico despota rinuncerà benevolmente al trono oppure sarà rovesciato”. Nella sala vuota, adesso, stanno montando un set televisivo, una ballerina prova da sola con la musica dello Schiaccianoci che esce dal telefono, immortale, e sembra dire che tutto è stato soltanto una parentesi, anche quel Febbraio di fame, di rabbia, di ferro e di fuoco.

3. Continua.

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