Qualche tempo fa, a seguito di uno dei numerosi contatti intercorsi tra Regione Lazio, Istituto Spallanzani e i vari portatori di interesse russi che hanno lavorato e lavorano al vaccino Sputnik, è stato annunziato un accordo tra l’istituto italiano ed il centro Gamaleya, che ha sviluppato il vaccino, per scopi di ricerca. In particolare, si è detto che si intendeva valutare la capacità del vaccino di neutralizzare le maggiori “varianti di interesse” di Sars-CoV-2 in circolazione, a cominciare ovviamente dalle cosiddette varianti inglese, sudafricana e brasiliana.
Forse sarà utile sapere che, in realtà, qualche dato esiste già, ed è stato pubblicato sotto forma di preprint da un gruppo di ricerca internazionale che ha visto collaborare scienziati degli Stati Uniti con altri dell’Argentina, paese in cui Sputnik si usa su larga scala. A partire da un piccolo campione di soggetti vaccinati (una dozzina), si è ottenuto siero ad alto titolo anticorpale; questo è stato usato in una particolare procedura di laboratorio, per misurare quanto fosse inibita l’invasione delle cellule da parte del virus, in presenza degli anticorpi formati dopo la vaccinazione con Sputnik.
Nonostante i dati vadano presi con molta attenzione, perché il numero di sieri testati è piccolo e dunque il margine di errore è ampio, la differenza che è stata misurata nella capacità di neutralizzare le diverse varianti è stata sufficientemente ampia per raggiungere la significatività statistica. In particolare, mentre la variante inglese B.1.1.7 non ha superato in laboratorio la protezione offerta da Sputnik, e la mutazione E484K da sola ha avuto effetto moderato, la variante sudafricana B.1.351 ha fatto registrare una marcatissima diminuzione della capacità del vaccino di conferire protezione dall’infezione (senza per questo necessariamente pregiudicare la sua efficacia nel ridurre i sintomi clinici).
Questo dato, pur su un campione così piccolo, è perfettamente sovrapponibile a quanto si è osservato con il vaccino AstraZeneca, anch’esso basato su vettore adenovirale e pure esso esprimente una versione della proteina Spike in cui non sono state introdotte mutazioni per stabilizzare la conformazione di maggiore interesse (quella di prefusione). Se non si tratta di coincidenze fortuite e se lo studio in questione sarà rinforzato da dati più ampi, potrebbe forse questo essere il punto di partenza per capire perché questo tipo di vaccini sono i peggiori, per quel che riguarda la variante sudafricana, contro cui invece sia il vaccino di Moderna che quello di Pfizer/BioNTech hanno mostrato una buona attività.
Inoltre, il fatto che diverse varianti comuni in Sudamerica (a partire dalle principali varianti brasiliane) abbiano la mutazione E484K, e che questa mutazione abbassi la capacità neutralizzante di Sputnik, è ovviamente annotato con preoccupazione nel preprint qui discusso, che vede numerosi ricercatori argentini fra i coautori. Queste varianti, infatti, sembrano avere ampia circolazione anche in Argentina, almeno a giudicare dai pochi dati genomici disponibili per quel paese; e poiché in quella nazione si sta usando Sputnik su scala ampia, è ovvio che la cosa desti un certo allarme.
Forse, dopotutto, non è così strano che il presidente dell’Argentina, tra i primi a essere vaccinati con una doppia dose di Sputnik, si sia comunque infettato, anche se per ora senza sintomi gravi; sarebbe a questo punto interessante sapere con quale ceppo, e quanti Argentini si trovino in una condizione simile.