AGI – “L’agricoltura è un’attività fondamentale. Il modello basato su fertilizzanti e pesticidi di monoculture esaurisce il terreno e lo uccide in pochi anni”, dice all’Agi Serena Milano, responsabile della Fondazione Slow Food per la Biodiversità.
Ora la domanda è: i cambiamenti climatici, la siccità, le temperature elevate ci costringeranno si o no a ripensare il modo di fare agricoltura in modo radicale? La battaglia è in corso: multinazionali come Syngenta, con base a Basilea in Svizzera, premono affinché si rinunci all’agricoltura biologica in favore di coltivazioni a sfruttamento intensivo per ottenere rese produttive maggiori, altri agricoltori puntano a ricoprire il territorio di serre attraverso cui poter controllare la produzione goccia dopo goccia. È l’approccio giusto? C’è una terza via?
“Un conto è avere delle aziende basate sul concetto della biodiversità, dove ci sono diverse culture, ma anche una coltura e una cultura del territorio e del suo paesaggio, un altro è avere una distesa di serre una di seguito all’altra”, risponde Serena Milano, che sottolinea: “La crisi climatica è un pezzo, il più importante, di una crisi ambientale complessiva gravissima. E in questa crisi ambientale uno degli elementi più tragici per il futuro del cibo e dell’agricoltura è la crisi del suolo, il suo depauperamento”.
Secondo la dirigente dell’associazione fondata da Carlo Petrini, “la situazione è al limite rispetto all’uso e all’esaurimento del suolo come risorsa. Non lo diciamo soltanto noi di Slow Food, è una tesi riconosciuta anche dalle Nazioni Unite, dalla Fao. Tant’è che l’anno scorso per la prima volta il rapporto Fao ha dichiarato che se non si inverte questo modello di sviluppo agricolo, nel giro di dieci anni vivremo una situazione drammatica per la sovranità alimentare e l’alimentazione di tutto il pianeta. C’è un problema di fertilità complessivo della terra che sta venendo meno”.
I dati a disposizione parlano chiaro: negli ultimi 70 anni abbiamo distrutto i tre quarti dell’agrobiodiversità che i contadini avevano selezionato nei 10.000 anni precedenti: il 75%, in paesi come gli Stati Uniti si supera il 90%. Poche multinazionali hanno preso il controllo del cibo, brevettando semi ibridi, fertilizzanti, pesticidi e diserbanti. E secondo uno studio inglese dell’Università di Exeter stiamo attraversando la sesta estinzione di massa. Con la quinta – 65 milioni di anni fa – si sono estinti i dinosauri. Intanto dagli anni ’70 del secolo scorso la produzione agricola si è orientata su un numero ristretto di varietà.
“Con il risultato che tre sole specie – mais, riso, grano – forniscono il 60% delle calorie necessarie alla popolazione del globo. Il 63% del mercato dei semi è rappresentato da ibridi commerciali ed è controllato da quattro multinazionali che possiedono anche i brevetti degli Ogm e sono leader nella produzione di fertilizzanti, pesticidi e diserbanti”, chiosa Milano.
Dottoressa Milano, c’è la possibilità di invertire la tendenza? Ci descriva il quadro
“Il terreno è il principale serbatoio di biodiversità, se viene meno la biodiversità del suolo vien meno tutta la catena biologica, vegetali, animali, impollinatori, noi stessi. È una catena che finisce con l’esaurimento della capacità produttiva dei suoli. Continuare nella direzione indicata dalle multinazionali è una follia, tutti i segnali che arrivano dalla terra, dall’ambiente, ci dicono di cambiare e non intensificare lo sfruttamento del terreno”.
Come si dovrebbe procedere?
“In parte significa ritrovare tecniche tradizionali, in parte innovare. È un mix. Non è né un ritorno al passato né un salto nel futuro. Siamo convinti che non ci sia una soluzione netta per cui la tecnologia può risolvere tutto oppure lo può solo un ritorno al passato tout-court. È necessaria una gradazione di questi due elementi, ma va assolutamente recuperato un impiego di tecniche tradizionali che fanno parte dell’agro-ecologia. Tecniche che si prendono cura del suolo. Tecnicamente, il suolo non deve essere nudo: le coperture, il sovescio, la pacciamatura, la rotazione con le leguminose, sono tutte tecniche antichissime che vanno all’origine dell’agricoltura ma sono tecniche fondamentali e se vengono meno, se non si usano, devono essere sostituite con fertilizzanti chimici. Quest’ultimi, per altro, arrivano da fonti fossili, ciò che implica una concatenazione di elementi tutti negativi. L’agricoltura s’è sempre basata solo sull’energia del sole. C’è poi sempre stato un mix tra agricoltura e allevamento, per cui parte della fertilizzazione arrivava dagli animali. Non c’è mai stata azienda agricola priva di animali”.
I dati dicono che negli ultimi 70 anni sono stati distrutti i tre quarti dell’agrobiodiversità, che significa?
“Non è solo perdita di varietà, gusti, che già è perdere un pezzo di qualità di vita non indifferente, ma è perdita di resilienza, parola in voga: queste varietà non sono nate per caso, non per logica di mercato, perché andava la carota arancione e allora si produceva la carota di quel colore. Sono nate perché, siccome il cibo doveva nutrire, di anno in anno si mettevano da parte le sementi migliori e quindi le varietà si irrobustivano diventando sempre più adatte al contesto. E se questo era siccitoso, le varietà avevano meno bisogno d’acqua. Il valore delle varietà locali e delle razze animali locali è questo: si sono adattate ai singoli contesti e hanno molto meno bisogno di input esterni. Si adattano. L’altro elemento della biodiversità è la grande diversificazione: non si coltiva lo stesso ibrido per migliaia e migliaia di ettari come nella monocultura classica di mais o soia, ma c’è diversificazione, consociazione di colture che si difendono a vicenda, rotazione, per cui non si esauriscono i terreni, sopravvivenza. In un anno difficile, qualcosa matura ma anche resiste e non va in crisi l’intera filiera”
A chi dice intensifichiamo le serre per sopperire alla scarsa produzione dovuta a siccità e clima, perché con le serre si può distribuire meglio l’acqua, controllare le temperature, cosa risponde?
“Che ipotizzano un’agricoltura slegata dalla terra. È come se fossimo a un bivio e prendessimo atto che abbiamo esaurito le risorse del suolo, cosa facciamo? C’è chi dice rigeneriamo il suolo e chi facciamone a meno. Cioè possiamo fare l’idroponico, coltivare senza terra, fuori suolo, possiamo fare delle serre. Come Slow Food proponiamo la prima soluzione, approccio che non è solo economico è olistico, mette insieme cultura, paesaggio, società, qualità della vita, tutto. La seconda strada, quella tecnologica, presuppone grandi investimenti e dal punto di vista del modello economico è una concentrazione di potere, comunque sono tecnologie costose, non adatte alla piccola scala. Significa immaginare un modello agricolo fatto di aziende sempre più grandi, concentrazioni sempre maggiori, quindi si tratta di multinazionali. Sta già accadendo, ormai da anni è in corso questo tipo di concentrazione. E un’idea di agricoltura di iperspecializzazione e concentrazione. Come per gli ogm, su cui la nostra posizione non è se fanno bene o male ma riguarda l’aspetto socioeconomico e su quale modello prefigurano: basato su brevetti e sul fatto che il futuro dell’alimentazione si baserà su sementi brevettate e vendute a quattro o cinque multinazionali che, non a caso, sono le stesse che vendono pesticidi e fertilizzanti”.
Quindi, qual è il modello più opportuno anche dal punto di vista economico?
“Il ciclo si chiude, è chiaro il modello: si può legittimamente pensare che quello intensivo sia un modello giusto, efficiente, secondo noi no. C’è un altro aspetto da chiarire: da un punto di vista economico noi riteniamo che non sia neppure economico perché nel mondo agricolo e la crisi riguarda anche le grandi aziende. Non sono più efficienti e fanno margini migliori. Le grandi aziende in Europa sopravvivono solo grazie alle sovvenzioni. Perché abbiamo una Politica agricola comune (Pac) sbagliata, che finanzia in proporzione chi è più grande per cui le grandi aziende ottengono la fetta principale di contributi. Se non ci fossero le sovvenzioni, vale per l’Europa come per gli Usa, queste realtà grandi che consideriamo efficienti, iperproduttive, che pensiamo siano il futuro, senza sovvenzioni non potrebbero sopravvivere. Non sono una realtà economicamente vincente”.
Quanto al sistema delle serre, cosa significa puntarci?
“Dal punto di vista paesaggistico-sociale significa abbrutimento. Basta andare in Spagna, la regione delle serre è oscena. Vuol dire perdere bellezza. L’agricoltura non è solo produzione, è anche paesaggio, paesaggio fruibile, turismo, turismo di qualità. L’agricoltura è anche gastronomia, le serre sono omologazione totale di sapori, per le materie prime, per la ristorazione. Vuol dire andare in una direzione che per l’economia, le culture locali è omologazione e sparizione della complessità, della diversità. E se anche per un attimo non parliamo di economia ma di qualità della vita, tema non secondario, questo significa poter prefigurare un futuro dove l’agricoltura abbia un senso per le anche o soprattutto per le generazioni future. Ne faccio anche una questione di bellezza”.
C’è un ultimo tema: Slow Food dà importanza molto alla diversità culturale, non solo genetica. Cosa significa?
“Significa che noi, non a caso, consideriamo biodiversità i pani, i formaggi, tutte le tecniche che hanno permesso di conservare le materie prime perché fanno parte della biodiversità da salvare perché sono il modo per salvare quel particolare formaggio ma anche il modo per salvare quella razza, quei pascoli, quell’economia di montagna, che altrimenti andrebbero dispersi. Ma non lo consideriamo un tema o gastronomico o commerciale ma un tema eminentemente che attiene alla nostra cultura, ai nostri valori, alle nostre tradizioni”.