Quando ci si stupisce dell’arrivo di nuove parassitosi nella nostra specie, magari ipotizzando come nel caso dell’ultima pandemia la creazione di un virus poi sfuggito al controllo, si manca di mettere nella giusta prospettiva evolutiva i cambiamenti alla composizione della fauna del nostro pianeta causati dalla nostra specie. Questi cambiamenti possono essere studiati in vari modi.
Potremmo per esempio confrontare l’abbondanza delle diverse specie, e la sua variazione nel tempo, usando il numero di individui vivi. Ciò, tuttavia, tende a favorire animali molto piccoli con popolazioni numerose e non ci dà necessariamente un’idea di quanto siano dominanti le diverse specie, se per dominanza intendiamo il loro impatto complessivo sull’ecosistema. Per questo, gli ecologi guardano di preferenza a un parametro diverso: la biomassa. Ciò non tiene conto solo del numero di animali, ma anche delle loro dimensioni; la biomassa complessiva di una specie corrisponde al peso di tutti gli individui viventi in un dato momento, misurato in tonnellate equivalenti di carbonio, il componente principale della materia organica. La biomassa ci fornisce una misura della produttività biologica di un ecosistema, specie per specie ed in totale. Restituisce letteralmente peso agli animali più grandi che si trovano ai livelli più alti della “piramide” ecologica, anche se sono numericamente più scarsi, bilanciando le distorsioni di cui si diceva pocanzi.
Ora, se guardiamo ai dati misurati per i mammiferi pubblicati nel 2023, scopriamo che le specie selvatiche costituiscono nel mondo moderno una percentuale compresa fra il 4% e il 6% della biomassa totale dei mammiferi. Gli esseri umani contano per circa un terzo, e i nostri animali domestici il grosso dei restanti due terzi. Nel complesso, la biomassa di mammiferi viventi è enormemente aumentata, passando dai 15 milioni di tonnellate stimate per 10.000 anni fa ai quasi 170 milioni attuali, ma essa è concentrata in maniera sproporzionata in pochissime specie domestiche e nella nostra.
Se invece di considerare i mammiferi rivolgiamo il nostro sguardo agli uccelli, la situazione non è molto diversa: gli uccelli d’allevamento costituiscono circa il 71% della biomassa totale. Cosa c’entrano questi numeri con le previsioni epidemiologiche che possiamo fare? È molto semplice: se la maggior parte della materia vivente, fra i vertebrati, prende sempre più forma umana o di qualche nostro animale domestico, è evidente che l’ecosistema dei loro parassiti si troverà sempre più davanti un paesaggio di potenziali ospiti appartenenti a quelle poche specie. In queste condizioni, i parassiti adatti a sfruttare l’abbondantissima riserva di risorse costituita dai corpi nostri e dei nostri animali domestici fiorirà, radiando evolutivamente anche a causa di ulteriori caratteristiche del mondo che abbiamo creato.
La specie nostra e le specie domestiche che alleviamo, infatti, sono caratterizzate tutte da mobilità molto aumentata rispetto alla maggior parte delle specie selvatiche, a causa dei viaggi e degli scambi commerciali; anche il flusso genetico interno, in conseguenza di questa mobilità e delle pratiche riproduttive utilizzate per nostro fine, tende ad appiattire la diversità, così che non solo abbiamo creato una riserva abbondantissima di ospiti uniformemente diffusa, con estesi contatti sia inter- che intraspecifici e grande mobilità, ma anche a diversità genetica intraspecifica relativamente ridotta.In sostanza, vi è un nuovo, amplissimo ecosistema per i parassiti nostri e dei nostri animali, i quali parassiti, a cominciare naturalmente dai virus, sempre più diventeranno in grado di sfruttare più di una delle specie della nostra bolla umana, saltando di continuo da un vertebrato all’altro a causa di accidentali similitudini fisiologiche, anatomiche e biochimiche – come è per esempio accaduto negli allevamenti di visoni da pelliccia in occasione della pandemia di SARS-CoV-2.
A questo panorama evolutivo – che in realtà, come è ovvio, è già in piena realizzazione dal secolo scorso – possiamo aggiungere anche qualche elemento ulteriore. In assenza di scarsità d’ospite, da un punto di vista esclusivamente biologico rimarranno due le principali forze selettive ad agire sugli agenti infettivi, guidandone l’evoluzione: la risposta immunitaria e la competizione fra parassiti, commensali e simbionti che albergano nei corpi degli ospiti. In particolare, per questo ultimo punto già sappiamo come alcuni nostri commensali ci mantengono in salute, tenendo sotto controllo per competizione o predando alcuni patogeni pericolosi nell’intestino, sulla pelle e nelle mucose. A fronte di un aumento della biodiversità dei nostri potenziali patogeni, si innescherà per forze di cose la competizione reciproca, una volta che ci si avvicini alla capacità portante in termini di risorse che i nostri corpi possono fornire; quella competizione può portare ad esiti interessanti, quali lo sviluppo di antibiotici che difendono il “territorio” di un patogeno da ogni altro (come osservabile in numerosi casi documentati). Sempre più, è chiaro che la sopravvivenza di un organismo ospite dipende dalle interazioni fra il suo sistema immunitario e i parassiti e dalle interazioni reciproche fra quelli; e questo quadro, via via che aumenterà la diversità dei nostri parassiti, sarà sempre più ricco e complesso.
Se non vogliamo che sia il tasso di variazione del DNA a decidere della nostra sorte – quello dei parassiti, anche in reciproca competizione, e quello che produce la grande diversità della nostra risposta immunitaria – è assolutamente necessario inserirsi in questa guerra informazionale. È priorità assoluta la rapida acquisizione di informazione sulla “patosfera” in continua evoluzione nel mondo, informazione sia molecolare (basata sia sul sequenziamento rapido del genoma ambientale sia su altri tipi di indagini continue), sia clinica (basata sulla sorveglianza dei sintomi umani e veterinari). È parimenti priorità assoluta l’acquisizione rapida di informazione su trattamenti potenzialmente efficaci per ogni nuovo patogeno, acquisizione che può essere oggi realizzata sempre più anche sfruttando tecniche di progettazione rapida al calcolatore di farmaci opportuni contro i bersagli molecolari identificati.
Ovviamente, non è detto che governi e istituzioni siano realmente in grado di apprezzare e di fare il necessario perché queste due priorità guidino un’azione di prevenzione efficace: forse esiste un limite invalicabile a ciò che un’istituzione politica può fare, per governare una comunità di miliardi di persone ed animali (quella cioè che andrebbe sorvegliata in maniera omogenea). Certo, però, la perdita di biomassa di tutte le specie eccetto poche, e non solo quella di biodiversità, favorisce sempre più l’avvicinarsi di uno stato di continua emergenza pandemica; e se il nostro sistema immunitario è riuscito, a volte a grave prezzo e con difficoltà, a farci attraversare tutti gli imbuti evolutivi costituiti dalle varie crisi pandemiche di cui si ha memoria storica, non è detto che le condizioni che stiamo preparando possano consentire di affidarci solo ad esso, rinunciando all’unica arma in grado di adattarsi con velocità paragonabile a quella dei patogeni – la nostra ragione scientifica.