AGI – Torturato, ucciso e dato alle fiamme. La terribile fine di un uomo onesto, Renato Caponnetto, imprenditore agricolo della provincia di Catania, fatto sparire l’8 aprile 2015, per decisione del boss Aldo Carmelo Navarria, al quale aveva detto chiaramente che non voleva cedere ai ricatti estorsivi. Di lui ha parlato anche il magistrato Sebastiano Ardita.
Il suo libro “Al di Sopra della legge” inizia da quella storia di cui ha scritto anche sui social. “Questo era Renato Caponnetto, un uomo buono che – ha scritto Ardita – aveva una azienda di prodotti agricoli in provincia di Catania. Dopo avere subito estorsioni mafiose, è stato sequestrato da cinque belve, portato in un casolare, denudato con le mani legate dietro la schiena, fatto inginocchiare, torturato e poi ucciso con una garrota appuntita stretta attorno al collo“. Il suo corpo è stato bruciato sui copertoni dei camion, mentre sul suo telefono continuava a lampeggiare una chiamata in entrata della moglie con la scritta “Amore”.
Il capo della cosca che lo ha ucciso era appena uscito dal carcere, dopo che era stato condannato all’ergastolo per avere ucciso 6 persone ed averle bruciate sui copertoni dei camion. Ma dopo 26 anni, “sfruttando – ha affermato Ardita – cavilli legali e ricevendo migliaia di giorni di liberazione anticipata è tornato ad uccidere”. Il caso viene tenuto vivo anche dall’Associazione antiracket antiusura Libera Impresa di cui fanno parte anche i familiari.
“È stato ucciso – hanno affermato questi ultimi – da un esponente di un clan mafioso senza scrupoli e senza umanità. Deve essere ricordato da tutta la comunità come esempio, di una lotta alla mafia senza precedenti”.