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Omicidio Livatino, il testimone chiave in Commissione antimafia. “La normalità del dovere”

Set 21, 2016

ROMA – “Io ho perso le piccole cose, gli affetti, le consuetudini, i luoghi cari che fanno, di un uomo, un uomo. Ora voglio essere soltanto dimenticato. Chiedo di poter ricostruire la mia normalità, la mia anonima vita normale lontano da scorte e bunker. E non voglio passare da un tribunale a un altro per ripetere la stessa dichiarazione già letta, sottoscritta, registrata, filmata. Un cruccio? Sì, non potrò più tornare in Sicilia. Mi piacevano i siciliani. Gente geniale, operosa, allegra, viva. Vivono in un contesto terribile. Hanno solo bisogno di un po’ di fiducia…”.

Così parlava Pietro Ivano Nava il 7 aprile del 1992, intervistato da Giuseppe D’Avanzo poche ore dopo aver ricostruito in tribunale quanto vide il 21 settembre di due anni prima lungo la statale Canicattì-Agrigento. Pietro, agente di commercio dal profondo Nord in missione in Sicilia, aveva assistito all’esecuzione del giudice Rosario Livatino. Una volta giunto a destinazione, presso un suo cliente, non aveva esitato a telefonare alla polizia dicendosi disponibile a fornire ogni informazione utile all’identificazione degli assassini. Catturati in Germania nemmeno un mese dopo e inchiodati dalle dichiarazioni rese al processo da Nava nell’aula-bunker di Rebibbia. Pietro non esitò mai di fronte alle responsabilità che si era assunto. Ma sapeva che avrebbe dovuto pagare un prezzo per mettere sè e la famiglia al riparo dalla vendetta della mafia. Fuggire dalla propria vita per entrare nei panni di qualcun altro. Un nuovo nome, una nuova città, un nuovo Paese. Pietro Ivano Nava doveva scomparire. E così è stato per 26 anni, quando sono stati letteratura e cinema a ricordarlo accostando la sua morte in vita a quella del Giudice ragazzino.

Un fantasma, Pietro, riapparso oggi in Commissione Parlamentare Antimafia, “evocato” per una speciale audizione. L’occasione, sottolinea la presidentessa Rosy Bindi, “per ripercorrere tutta l’esperienza di Nava, in un periodo in cui nella nostra legislazione non esisteva una chiara distinzione tra testimoni e collaboratori di giustizia. Abbiamo avuto una toccante testimonianza della normalità di cui c’è bisogno per combattere le mafie. La morte ha unito Livatino e Nava, ma per il loro coraggio e la loro serietà sono stati scritti nello stesso libro della vita”. E adesso, con l’audizione del supertestimone, anche negli atti della Commissione parlamentare antimafia. Ancora Bindi: “Abbiamo voluto lasciare agli atti del Parlamento le parole di un pioniere, che con grande semplicità e senza essere sfiorato da alcun dubbio ha compiuto il gesto, allora dirompente, di denunciare il crimine a cui aveva assistito, senza neppure sapere che si trattava dell’omicidio di un magistrato. Una scelta che, ci ha detto, rifarebbe anche domani, non come un atto eroico ma come il dovere di ogni cittadino, perché tutti dobbiamo sentirci parte dello Stato”.

Già, Pietro Ivano Nava non si sentiva un eroe. E lo spiegò a D’Avanzo, in quell’intervista concessa a Repubblica nelle ore in cui la sua rotta esistenziale deviava per sempre. “Non mi sento un eroe, non mi sento una mosca bianca. Non sono né l’uno né l’altro. Sono un cittadino che crede nello Stato né più né meno come ci credeva Rosario Livatino. E lo Stato non è un’ entità astratta. Lo Stato siamo noi. Siamo noi che facciamo lo Stato. Giorno per giorno. Con i nostri comportamenti, la nostra responsabilità, le nostre scelte. Con la nostra dignità. Che avrei dovuto fare? Chiudere gli occhi? Tirare innanzi per la mia strada? No, non sono stato educato a questo modo. Mi sono comportato come mi hanno educato. E non rinnego nulla. Se potessi tornare indietro, lo rifarei. Alzerei ancora quel telefono…”.

Pietro avrebbe rifatto tutto, pur avendo già abbondantemente assaggiato il sapore amaro del suo nuovo futuro. “La mia vita è stata stravolta, sì. Ho 42 anni. Avevo degli amici che mi erano cari come fratelli. Non li vedo più, non ci si telefona nemmeno. Ho una famiglia. Posso vederla soltanto di tanto in tanto. Sempre all’improvviso, sempre in fretta. Ho una compagna e due bambini di nove e quattro anni. Trascorriamo del tempo insieme. Quando è possibile, se le condizioni di sicurezza lo permettono. Avevo un lavoro. Ero il rappresentante esclusivo per il Mezzogiorno delle porte blindate della Dierre di Villanova d’Asti. Mi hanno licenziato che non era passato neanche un mese dal quel 21 settembre, ancora prima di sapere che inferno sarebbe diventata la mia vita. Semplicemente non volevano guai”.

Attraverso la penna di D’Avanzo, Nava ribadiva una richiesta che di certo non aveva mancato di reiterare a chi aveva raccolto i suoi preziosissimi ricordi di un giorno di fine estate in Sicilia: “Allo Stato non chiedo nulla, chiedo che non abbandoni la mia famiglia. La mia famiglia, in questa storia, non deve entrarci. Non deve correre nessun pericolo. Mai. Né oggi né domani. Finora non ho nulla da recriminare. Chi mi sta accanto ha fatto il suo dovere. A volte con efficienza, a volte con un’esasperante lentezza burocratica”.

In realtà, Pietro Ivano qualcosa da rimproverare allo Stato l’aveva: “Io non sono un pentito della mafia o della camorra – osservava nell’intervista, quasi guardandosi allo specchio -. A volte ho la sensazione che, per la macchina dello Stato, non ci sia poi tanta differenza tra un pentito e un testimone con un’immacolata fedina penale”.

Ventisei anni dopo quelle ultime considerazioni, Pietro Ivano Nava ha accettato di collaborare con i parlamentari della Commissione Antimafia che stanno lavorando alla riforma della legge sui testimoni, all’esame della Commissione Giustizia della Camera.

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