AGI – Mi ricordo, sì io mi ricordo. Aleppo. Era l’ottobre del 2010. Sei mesi prima che cominciasse, a ridosso della “primavera egiziana”, la guerra civile in Siria. Mi ricordo di Aleppo e torna forte – in queste ore di macerie, di scosse sismiche, di gelo e di morti, di centomila senzatetto soltanto qui – la nostalgia per la Siria che conobbi, in un viaggio dal Sud al Nord, da Ovest a Est nel Paese del dittatore formatosi a Londra.
Era un invito a seguire, per un gruppo di giornalisti occidentali, il Festival della Via della Seta, in una sorta di “offensiva del turismo” che il regime di Bashar al-Assad offriva al mondo, per dissipare l’alone fosco di Stato-canaglia. Mi ricordo di Aleppo, col suo fascino di crocevia di civiltà, come del resto tutta la Siria. Che impasta Oriente e Occidente, musulmani e cristiani, Gesù e il Grande Saladino, antichi romani e persiani, palestinesi ed ebrei, turchi e inglesi, suk e resort.
Un rimpianto che replica quello di dieci anni fa, quando la Cittadella di Aleppo fu bombardata, come del resto i templi, il teatro, le vie basolate di Palmyra, “terremotati” dai terroristi con quel gusto per la distruzione già mostrato dallo scempio talebano alle statue dei Buddha in Afghanistan. Nel 2017 la Cittadella della seconda città della Siria era stata riaperta, adesso il terremoto si è accanito.
E allora mi chiedo quanto attenderemo la ricostruzione e se ci sarà mai davvero. Così mi figuro Aleppo come la conobbi. Alta sulla collina, separata da un fossato medievale, assertiva nella monumentale porta di accesso e nella lunga scala che come un ponte levatoio la congiungeva al resto della città, illuminata coi fari color fiaccola di notte, sgargiante di giorno, per quel suk dove si comprava il sapone che dà fama alla città, un piccolo “mattone” grigio-verde, che impasta olio d’oliva e di alloro. E si acquistavano gli anacardi per i cocktail, i tappeti, le sciarpe di seta col disegno cachemire, mentre certe bancarelle di lingerie ostentavano completini da pin up, con piume per coprire pube e capezzoli.
Aleppo con il bar del Baron Hotel, ai cui tavoli si fermò Lawrence d’Arabia senza pagare il conto, ma sostarono anche Agatha Christie, Rockfeller, Gagarin. Aleppo dai lunghi viali degli alberghi. A tarda sera, dopo lo spettacolo di danze sullo sfondo della Cittadella, Alisar, la nostra guida sulla sessantina (svelto italiano grazie alle vacanze annuali nel nostro Paese), ci fece intrufolare, abile com’era, in una hall dove due ricchi giovani cominciavano la propria festa di nozze.
Ecco i dervisci ruotare parossistici le loro gonne, ecco lo sposo passare sotto il ponte delle loro spade. Ma sbirciare il resto del ricevimento fu permesso solo a noi donne. Pranzo e ballo erano vietati agli uomini, tranne che allo sposo. Levandosi il velo la sposa, scollatura alla Rita Hayworth in Gilda, lo avvinghiava in un lento di seduzione, mentre intorno bistrati occhi femminili – le invitate, sedute attorno a piccoli tavoli tondi – guardavano la scena, a dire di un matriarcato saccente.
E mi ricordo di Latakia, l’antica Laodicea, pure entrata nelle cronache di distruzione di queste ore. Anche qui, come ad Aleppo, è arrivato il nunzio apostolico in Siria, Zenari, per portare aiuti concreti e conforto a duecento terremotati ospitati nel convento del Sacro Cuore di Gesù. Invece la città che conobbi era porto fiorente e meta turistica, affacciata sul Mediterraneo con i suoi alberghi a due piani, il giardino reso confortevole dagli ombrelloni bianchi, il lungomare illuminato fino all’alba, come nella nostra riviera adriatica. Compreso il doppio whisky da ordinare al bar o ai chioschi, in barba al divieto assoluto di consumare alcool. Foto sbiadite in una terra dove gli aiuti governativi distinguono tra sfollati “amici” e “nemici”, tra cittadini e “ribelli” perché anche di fronte allo sfacelo venuto dal sottosuolo la guerra civile non si svelenisce.