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Non esiste bellezza senza sofferenza. Vale anche per la scienza

Apr 14, 2023

Molto spesso mi soffermo a descrivere la bellezza dell’oggetto di studio dello scienziato naturale, ovvero la bellezza degli organismi viventi, degli ecosistemi, dei paesaggi terrestri e cosmici, una bellezza che riverbera dal livello microscopico, nei dettagli dell’architettura atomica e molecolare della natura, salendo di scala fino alle gigantesche dimensioni degli oggetti celesti. Soprattutto per quanto riguarda gli organismi viventi, è facile provare una profonda soddisfazione estetica nell’esame di una moltitudine di dettagli, comportamenti, aspetti, forme e colori che supera agilmente le nostre capacità immaginative; così come è meraviglioso scoprire di volta in volta i particolari degli adattamenti di singoli organismi, di gruppi di essi, di specie diverse e di interi ecosistemi, adattamenti reciproci che spesso hanno in esito spettacolari panorami viventi a cui non si riesce a rimanere indifferenti.

 

Mi rendo conto, tuttavia, che forse proprio questa estrema bellezza, questo profondo soddisfacimento estetico che proviamo al contatto e nella contemplazione più o meno informata di ciò che chiamiamo mondo naturale, intendendo soprattutto il mondo vivente, è alla base della convinzione che “la natura” sia fornita di un “meccanismo interno” atto a garantire equilibrio, salubrità, tranquillità e altre qualità che, guarda caso, associamo ormai quasi senza più pensarvi al concetto di “naturalezza”. καλὸς καὶ ἀγαθός, bello e buono, idealizzavano i Greci nel V secolo: e questo inscindibile legame concettuale, che ci spinge a pensare che ciò che è così bello non possa altro che essere “buono”, cioè far del bene a noi e al cosmo, si riverbera ancora oggi nell’atteggiamento della maggior parte delle persone di fronte alle supreme virtù estetiche del pianeta vivente. Ora, non vorrei che le mie descrizioni volte spesso a far apprezzare proprio la bellezza del vivente e dei suoi vari livelli di organizzazione rinforzassero questa euristica, che è invece profondamente fuorviante e alla base della convinzione dei più accesi ed insieme ingenui estremisti che, separando l’uomo da una ipotetica natura di cui è invece al massimo parte, ritengono l’intervento umano sempre e comunque fonte di esclusiva rovina.Bastano poche, scarne considerazioni per demolire l’associazione tra bellezza della vita sul nostro pianeta, da una parte, e il secondo termine dell’uguaglianza, declinato nelle sue varie accezioni.

 

La lezione più importante viene da Darwin: ogni aspetto del mondo vivente, ed ogni aspetto della sua azione sul mondo non vivente, sono il risultato di un’orribile procedura di eliminazione, che potremmo dire sbozza con l’implacabile scalpello della selezione naturale quei tratti che noi tanto apprezziamo dal corpo vivo delle specie e delle popolazioni. Percentuali ridicole dei piccoli di ogni specie riescono a raggiungere l’età adulta: che si tratti degli avannotti di una trota fario, della nidiata di una cincia, oppure dei semi di un abete bianco, miliardi di miliardi di individui ogni anno periscono, spesso soffrendo, essendo dotati di sistemi sensori tali da percepire il dolore, e talvolta di sofferenze prolungate e lunghe, a causa di certi adattamenti specifici. In proposito, già Darwin, osservando la predazione dei bruchi di farfalle da parte di particolari vespe, scrisse ad Asa Grey: “Non riesco a persuadermi che un Dio benefico e onnipotente abbia volutamente creato gli Icneumonidi con l’espressa intenzione che essi si nutrano entro il corpo vivente dei bruchi”. Con ciò dimostrando come la sofferenza e la morte nel mondo vivente siano tali, da fargli perdere persino la fede religiosa. Né gli individui che raggiungono la vita adulta sono destinati ad una morte migliore: quasi invariabilmente, animali senzienti periranno dolorosamente per l’attacco di un predatore o di un parassita, oppure patendo una rovinosa fame, incapaci di procurarsi il nutrimento per l’età troppo avanzata o per i danni ricevuti durante la loro esistenza. Questo senza contare l’ulteriore azione delle condizioni fisiche come caldo, freddo, siccità o più occasionali eventi disastrosi, che possono procurare sofferenza, ferite, patimenti ad animali di ogni tipo.

 

Queste poche righe dovrebbero bastare a convincere tutti che la bellezza dei viventi, e quindi dell’ambiente da questi modificato, trae origine in una terribile macina di morte, che distrugge e fa soffrire il maggior numero di individui, modificando così le popolazioni per portare quei meravigliosi adattamenti che tanto carezzano il nostro senso estetico: lo strumento della selezione naturale, cioè, è la falce della morte, non certo il pennello dell’artista, e non vi è nulla di particolarmente salubre, tranquillo, equilibrato, edificante o pacifico. È da poco, pochissimo tempo che abbiamo potuto dimenticare, nelle nostre vite che scorrono nella parte agiata del mondo, quale sia il prezzo del vivere con meno capacità di influire sui fenomeni naturali e di modificare l’ambiente rispetto a quanto la scienza e la tecnologia occidentali consentono; ed è solo per questo che crediamo che le modifiche umane siano solo un rovinoso danno e che la bellezza naturale corrisponda a qualcosa di diverso, rispetto al terribile processo che la produce, immaginandoci che sia un equilibrato idillio di collaborazione fra specie diverse (collaborazione che certo esiste, ma che è solo un piccolo aspetto).

 

Dunque? Distruggiamo tutto, creando un mondo privo di altri organismi viventi, producendo il cibo nei laboratori e tenendo al più con noi i nostri animali domestici preferiti? Dubito che le nostre capacità gestionali, su scala planetaria, siano tali da consentirci una tale possibilità, se non per pochi ricchissimi individui e su scala geograficamente ridotta; ma più ancora, sono profondamente contrario ad una simile visione, quando anche fosse a portata di mano, esattamente per la ragione estetica con cui ho aperto queste brevi considerazioni. Io sono profondamente convinto che la bellezza dei nostri ecosistemi, su scala planetaria, vada tutelata il più possibile; sono cioè convinto della necessità assoluta di abbassare il più possibile il nostro impatto ambientale, cambiando comportamenti e tecnologie, non solo perché ritengo che la nostra sopravvivenza sia altrimenti a rischio, ma anche e soprattutto perché non posso capacitarmi di perdere tutta questa infinita bellezza, tutto questo profondo e vario mondo di organismi di ogni forma, dimensione, colore e comportamento frutto di miliardi di anni di evoluzione biologica. Non la finta salubrità, l’inventato equilibrio, le virtù taumaturgiche e la pretesa tranquillità del mondo naturale, da contrapporre ad una immaginaria vita artificiale; queste son tutte balle, buone per il marketing degli alimenti venduti nei mercatini bio. È la grande bellezza evoluta negli organismi viventi: costata sangue, sofferenza e morte, è questa l’opera che non possiamo permetterci di rovinare, ed è questo l’ideale cui devono tendere i migliori sforzi di quella mente collettiva di cui andiamo così fieri, senza rinunciare ad agire sull’ambiente, ma volgendo la nostra azione ad un fine migliore.

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