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Rummenigge: l’uomo che lasciò il Bayern Monaco per l’Inter

Apr 1, 2017

di Walter Veltroni

sabato 1 aprile 2017 10:09

ROMA Rummenigge è uno di quei fenomeni del calcio che l’Italia ha attirato, accolto, fatto esprimere al meglio. E’ stato un tempo magico, in cui il nostro paese era il sogno di tutti i calciatori più forti del mondo. Maradona, Zico, Falcao, Platini, Krol, Brady, Bertoni, Careca, Cerezo, Boniek, Socrates… Potrei continuare per pagine e pagine. Chi ha vissuto nelle nostre squadre quel periodo ha riportato un ricordo indelebile del nostro paese e del nostro calcio. Ora invece lo stesso succede in Spagna, in Inghilterra, persino in Cina. Solo quando ci si renderà conto delle immense potenzialità che il nostro football può avere, come spettacolo e come industria, torneremo a quei livelli. Rummenigge è stato un grande attaccante, un giocatore corretto e, nelle nazionali, un avversario leale. E’ stato il più italiano dei tedeschi. Noi gli siamo rimasti affezionati. E lui, almeno a giudicare la nostalgia per il nostro paese che dimostra e la immutata confidenza con la nostra lingua, ci deve portare ancora nel cuore.

Come comincia a giocare al calcio un bambino tedesco, in una città di sessantasettemila abitanti come la sua?

«Non c’era niente altro da fare che giocare al pallone, per divertirsi. Finita la scuola andavamo subito in campo a giocare a pallone. Avevo cinque o sei anni e intorno a me non c’era altro, non c’era niente altro, perché il mondo era molto diverso da oggi. Meno ricco, meno opulento. Anche per i bambini».

Quindi quasi per sfuggire alla noia?

«Era un modo per trascorrere il giorno nel modo migliore possibile».

I suoi genitori che cosa facevano?

«Mia mamma era a casa e mio padre è stato meccanico».

Hanno seguito sempre la sua carriera?

«Sì, soprattutto mio padre, perché lui mi ha portato dappertutto, quando c’era bisogno. Lui aveva giocato nella C1, terza lega tedesca. Sapeva tutto di calcio, aveva una gran passione».

Dove ha cominciato poi a giocare seriamente? «Ho giocato seriamente a sette anni in un club della città di Lippstadt che si chiama Borussia. Borussia Lippstadt è un club che giocava nella C2 e poi io ho fatto tutta la trafila lì nel club. Quando avevo sedici anni mi hanno messo subito nella prima squadra, perché avevo talento. Un talento riconoscibile. Poi ho fatto qualche gol. Quando avevo diciassette anni gli scout del Bayern mi hanno visto e poi, così, si è preparato il trasferimento da Lippstadt al Bayern».

Quindi lei è andato, ragazzo, a vivere a Monaco?

«Ho aspettato i diciotto anni. Perché in Germania in quel periodo dovevi avere diciotto anni per fare il trasferimento pubblico».

Se lo ricorda il primo giorno al Bayern Monaco?

«Sì, mi ricordo molto bene perché mentre facevamo l’allenamento è arrivata la squadra mitica, quella dei miei sogni da bambino. Quella con Beckenbauer, Müller, Maier . I giocatori che avevano vinto il campionato tedesco, poi la Coppa dei Campioni e poi, sette di loro , anche il Mondiale. Quando siamo usciti per la prima volta in campo per allenarci, c’erano quindicimila spettatori. Io sono uscito per primo e mi sono nascosto nell’angolo per guardare un po’ la scena, come se io non c’entrassi, perché è stato proprio spettacolare quello che ho visto. Erano dei miti in tuta».

Chi era, di quei giocatori, quello da cui lei ha imparato di più?

«Ho imparato molto da Beckenbauer, anche un po’ da Müller. In campo direi da Müller perché è stato attaccante. Ho imparato da lui soprattutto come muoversi in area di rigore. Poi, fuori campo, molto da Beckenbauer e da Hoeness».

LEGGI L’INTERVISTA COMPLETA SULL’EDIZIONE ODIERNA DEL CORRIERE DELLO SPORT-STADIO

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