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Nessuno poteva vigilare sul detenuto morto per overdose di farmaci durante la rivolta Covid 

Giu 14, 2022

AGI – Perquisire la cella di Khedhri Haitem, morto per un’overdose di farmaci” avrebbe significato “dare adito a nuovi scontri” in un “contesto drammatico” nel quale “il preminente interesse da salvaguardare era la messa in sicurezza del penitenziario e delle persone detenute”.

Per questo, scrive il gip di Bologna che archivia il caso nel decreto letto dall’AGI, la dirigenza della casa circondariale ‘Rocco D’Amato’ non avrebbe potuto evitare la morte del giovane uomo di 29 anni di origini tunisine, uno dei 13 reclusi deceduti durante e dopo le rivolte che insanguinarono le carceri nel marzo del 2020.

“Le istituzioni costrette fuori dal carcere” 

Quella del giudice Alberto Gamberini è una motivazione molto articolata che va ‘oltre’ la richiesta di archiviazione presentata dalla Procura per il reato di ‘morte come conseguenza di un altro delitto’.

Il 9 marzo, dopo il fallito incontro di ‘conciliazione’ coi vertici del carcere, “cresceva lo scontento generale e gruppi sempre più corposi e agguerriti di detenuti iniziavano a insorgere, rifiutandosi di rimare nelle proprie celle e pretendendo venisse riconosciuto il loro diritto ai colloqui”, che il governo aveva appena negato nell’ambito delle restrizioni per il Covid. Le forze dell’ordine erano costrette ad abbandonare l’istituto e “nel giro di due giorni il penitenziario risultava allagato, privo di sistema elettrico, incendiato in numerosi settori e completamente privo di controllo video per la distruzione delle telecamere”.

I reclusi, al 30 per cento tossicodipendenti, “avevano la disponibilità di un altissimo numero di farmaci e sostanze psicoattive” Il 9 e il 10 marzo “le istituzioni rimanevano all’esterno del muro di cinta cercando di rientrare in possesso del penitenziario”.

L’ultima cena di Khedhrri 

Alla mezzanotte del 10, Khedhri Haitem  preparava nella sua cella la cena per il coinquilino Matteo G. dal cui racconto sappiamo che il giovane tunisino aveva partecipato alla rivolta ed era tornato a dormire, nascondendo qualcosa che, visti i trascorsi con la droga, aveva immaginato fossero medicinali.  Alle 10 e 30 del mattino successivo, Khedhri  smetteva di russare. Un paio d’ore dopo, Matteo G. gli buttava dell’acqua addosso. Era morto.

Nei mesi precedenti, riferiva il medico del penitenziario, aveva manifestato l’intenzione di uccidersi. La domanda del giudice, stimolata dall’opposizione all’archiviazione del Garante Nazionale dei Detenuti, era se il carcere, facendo intervenire gli agenti, avrebbe potuto impedire l’assunzione di psicofarmaci. “Risulta ragionevole – è la risposta che si da’ il magistrato – la scelta della Direzione di non procedere immediatamente a una perquisizione generalizzata quantomeno sotto il profilo del mantenimento della situazione di sicurezza” perché “violare la privacy dei detenuti avrebbe manifestato una totale insensibilità delle istituzioni alle istanze avanzate da loro”.

Inoltre, non c’è la certezza, prosegue, su quando il giovane abbia ingerito i farmaci, se prima o dopo la ripresa del controllo della casa circondariale e quindi se una perquisizione “tempestiva” avrebbe potuto impedire la morte.

Le accuse di tortura a Modena 

Nei giorni scorsi, come anticipato dal ‘Domani’ e letto dall’AGI nel documento firmato dal pm, la Procura di Modena ha svelato, attraverso una richiesta di proroga delle indagini, di avere iscritto nel registro degli indagati 5 agenti della polizia penitenziaria con le accuse di tortura e lesioni aggravate per i fatti accaduti nella città emiliana il 19 marzo. Tutti sono ancora in servizio al ‘Sant’Anna’.

Le persone che avrebbero subito le presunte violenze sono sette. Un altro fascicolo avviato a Modena è stato archiviato anche se l’associazione Antigone ha presentato ricorso alla Corte internazionale dei Diritti dell’Uomo.  

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