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Nella periferia di Mahmood: “È il mio mondo, io resto qui”

Feb 18, 2019

MILANO – Alcuni lo fotografano da lontano, tipo paparazzi. Altri si fanno un selfie o con timidezza o senza neppur chiedere, come fosse un diritto, e lui dà anche consigli su come fare lo scatto. I più però lo fermano, lo salutano, si complimentano, lo stringono, lo sbaciucchiano e poi certo, già che c’è, sguainano il cellulare ed eternano questo momento indimenticabile. “Neanche avessi vinto Sanremo“, sorride Alessandro. Col dettaglio, ininfluente certo, che lui Sanremo l’ha vinto davvero, che la canzone Soldi è la più ascoltata della settimana e che il disco Gioventù bruciata uscirà in anticipo, venerdì, per le tante richieste. Così adesso Alessandro Mahmoud, in arte Mahmood, non può fare più di tre passi di fila nel suo quartiere. Ma è tutto tranne che un problema: a divo non si atteggia neanche ora che ne avrebbe diritto. Il resto lo fa un carattere mite, con un sorriso malinconico stampato in viso e gli occhi dolci. “Sono e resto la persona semplice e normale di prima. Ma ho capito che qui sono diventato l’eroe per chi vede in me il simbolo del possibile riscatto sociale: anche abitando in un posto come questo si può avere successo, non si è condannati a una vita triste”.

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Traduciamo “un posto come questo”. Il Gratosoglio è estrema periferia sud milanese, catene non interrotte di formicai umani, palazzoni popolari da centinaia di appartamenti, cemento che abbonda anche nei parchetti, disagio che va dalla difficoltà di sbarcare il lunario alla disperazione alla fame chimica, il tram – linea 15 – come solo mezzo pubblico a legarti al mondo. Da qui con talento, determinazione, sensibilità, Alessandro ha saputo uscire. O meglio, emergere: di mollare il Gratosoglio non ha la minima intenzione, e non solo per l’affetto, “che c’era anche prima, Sanremo l’ha solo amplificato, benché a livelli impensabili”.

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È che in un paio di chilometri quadri c’è tutto il suo mondo. Con lui lo giriamo partendo dalla scuola elementare Feraboli di via Feraboli, l’occasione per parlare delle sue origini straniere: “Davvero, non ho capito le polemiche intorno a me. Sono nato alla clinica Mangiagalli, dove partoriscono i milanesi, e questa scuola era già multietnica 20 anni fa, in classe avevo cinesi, rumeni, algerini. Milano per me è la città del mondo, io e i miei coetanei non badiamo neppure all’etnia”. Colour blinded, dicono in America. Certo, il papà è egiziano, “ma è andato che avevo 6 anni, al Cairo sono stato due volte e ricordo un quartiere poverissimo, coi bimbi scalzi eppure pieni di gioia. Però mamma è sarda e a casa parliamo in sassarese. In più avendo fatto il Linguistico , so anche spagnolo (da Dio), francese (ahia) e inglese (decente). L’arabo poco, ma approfondirò”. In quel mentre esce il custode delle scuole e si fa una foto pure lui, e una professoressa si ferma a complimentarsi “per l’ottimo italiano delle tue canzoni”.

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Accanto la chiesa di San Barnaba: pur non praticante, Mahmood è cattolico, battezzato, cresimato, con esperienze nel coro a messa (“l’unico maschietto in mezzo alle donne”). E una signora lo abbraccia stretto: Anna Cervo è stata la sua catechista. “Era fantastico già all’oratorio”, sorride commossa. Arrivano dei ragazzi che non perdono l’occasione del selfie, poi iniziano a chiacchierare, “ma tu sei il cugino di Francesco? E di Sabrina?”. Lui non può che annuire: “Mamma ha 12 tra fratelli e sorelle, ogni tanto perdo il conto dei cugini, che casino ricordarsi tutti i compleanni”.

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A pochi passi, la fermata del 15. tram lungo e col culo grosso che balla tutto il tempo, “ma queste oscillazioni mi hanno sempre cullato, a volte mi sono appisolato e ho sbagliato fermata”. Usato però in direzione sud, a Rozzano, “la chiamavo Rozzangeles perché lì era il divertimento. Con gli amici attraversavamo via dei Missaglia sul ponte coperto zeppo di venditori di cd contrabbandati e cinture D&G tarocche, e al di là avevo il cinema nella multi-sala, il centro commerciale Fiordaliso dove fare lo struscio tra i negozi e un McDonald’s in cui buttar giù un Big Mac, un Filet-o-fish o un Crispy McBacon”. Per il nord, il centro, Alessandro usava l’auto: “Due anni a un bar di piazza San Babila, sempre il turno di apertura, e all’alba il tram non passa. Facevo cappuccini. Non sapevo montare il latte, ma col tempo ho imparato: a qualunque cosa faccia mi dedico anima e corpo. E i testi di tante canzoni li ho buttati giù sul taccuino delle comande, non ho mai smesso di desiderare di fare il musicista. Crederci sempre arrendersi mai, è il mio motto”.

Italiano al 100%, Mahmood lo è anche nei diritti. Compresi quelli politici. Impossibile, forse anche irrilevante, sapere chi ha votato, però a votare va, “con convinzione per la pratica democratica, molto meno per chi ho votato. In Italia non è un periodo facile, possiamo farcela se l’Europa ci aiuterà e daremo importanza alla vita degli altri, alla gente”. Forse anche per la fiducia che ha verso gli altri non si aspettava polemiche politiche, “per di più di livello così basso”. Però sull’iPhone mostra un sms: il numero – in rubrica – è di Matteo Salvini, che ammette altri gusti musicali, ma lo invita a godersi la vittoria. “L’ho ringraziato, ero sicuro che non ci fosse nulla di personale in quel che ha detto”.

Davvero, di questo italo-italiano colpisce la serenità, che non è lo sforzo estremo di chi deve tenere i piedi per terra per non volare chissà dove, “sono sempre stato così”. Per dire, arriva la notizia di un parlamentare (ops, leghista) che vuole obbligare le radio a trasmettere il 33% di musica italiana, e polemizza proprio con lui. La sua reazione? “Molto bene. Così metteranno di più anche le mie canzoni”. Un italiano vero, alla Toto Cutugno. Come è stato costretto a canticchiare dalle Iene di Italia Uno che gli hanno fatto un agguato sotto casa. E questo pare sia stato il massimo pericolo che Mahmood ha corso al Gratosoglio da quando ci è nato. “Mai avuto a che fare con razzismo, droga, violenza, giuro. Dove potrei stare meglio?”

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