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“Mi hanno pestato in cinque. Non dormivo più la notte, ho dovuto cambiare lavoro”

Gen 3, 2020

C’è un giorno che segna un prima e un dopo nella vita del dottor Francesco Bossio da Crotone. Si tratta del 2 agosto 2018, quando cinque persone l’hanno picchiato nel suo reparto, la rianimazione dell’ospedale San Giovanni di Dio. A scatenarle è stata la morte di un parente colpito da una malattia neurologica senza ritorno. L’aggressione ha spinto il medico, che ha 61 anni, a lasciare la terapia intensiva ma non lo ha fatto scappare dai pazienti. Anzi, lo ha avvicinato ancora di più alle loro sofferenze, perché ha avviato un servizio di cure palliative domiciliari per i malati terminali.

Cosa è successo il 2 agosto?

«Facevo il turno di notte in rianimazione. Da noi era ricoverato un trentenne con il destino segnato da una grave malattia neurologica progressiva. Il suo nucleo familiare però, da giorni, non si rassegnava. Alle 23 la situazione è precipitata, il malato stava per morire».


Quindi ha avvertito i parenti?

«Ero convinto che avrebbero fatto un po’ di confusione e per gestire al meglio la situazione ho fatto entrare la madre della famiglia che vive in provincia di Reggio Calabria. Pensavo fosse una cosa buona farla stare vicino al figlio negli ultimi istanti della sua vita».

E invece?

«Appena si è accorta che era morto ha iniziato a urlare richiamando gli altri. Il gruppetto si è precipitato in reparto. Hanno preso ciò che trovavano sulla mia scrivania, i citofoni una lampada, una spillatrice, e hanno iniziato a colpirmi alla testa. Io provavo solo a parare i colpi di quei cinque, tre donne e due uomini».

Quanto è durata l’aggressione?

«Sette o otto minuti, poi una delle infermiere è riuscita ad andare nelle sale operatorie a chiamare i colleghi. Dopo sono arrivate anche le guardie giurate e la polizia».

Che danni ha avuto?

«Ho subito lesioni da taglio e da percosse, in tutto per un mese di prognosi. Poi c’è stato il grave danno psicologico, mi ha seguito anche uno psichiatra».

Li ha denunciati?

«No ma c’è comunque un processo per interruzione di pubblico servizio. Sono andato alla prima udienza perché avrei voluto vederli in faccia ma non c’erano».

Secondo lei perché avvengono tante aggressioni ai medici?

«C’è tanta rabbia sociale. Medici e personale sanitario sono identificati come il nemico, non come chi aiuta. Siamo una controparte, quelli in prima linea contro i quali prendersela. Il nostro pronto soccorso ha visto vari episodi come il mio, è un campo di battaglia».

Cosa ha fatto quando si è rimesso?

«La mia vita lavorativa è completamente cambiata. Nel periodi di malattia ho pensato a lungo se tornare in rianimazione. Ne avevo voglia ma facevo anche sogni ricorrenti di quell’aggressione, mi svegliavo nel cuore della notte».

Pesavano le violenze?

«Pesava anche il pensiero insostenibile di essere considerato nemico dai pazienti dopo aver fatto questo lavoro per tanti anni, aver perso centinaia di ore di sonno e aver trascorso Natali e festività in ospedale».

Quindi ha deciso di lasciare?

«Si, ho chiesto il trasferimento. Ora mi occupo di cure palliative. Vado nelle case, sto vicino ai malati terminali e alle loro famiglie».

Il nuovo incarico la sta aiutando?

«Tantissimo. La gratitudine dei pazienti e delle loro famiglie sono importanti, soprattutto in questa fase della vita che corrisponde all’età matura».

Ha superato quella notte?

«Adesso sì. Grazie al nuovo lavoro ho ritrovato il rapporto con i malati che si era reciso il 2 agosto. Se avessi smesso non ce l’avrei fatta».

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