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Maradona è morto, viva Maradona. Ma era l’uomo che amavate odiare

Nov 26, 2020
Morto Maradona, i gol più belli del Pibe de Oro

Tutti piangono il calciatore più forte di sempre, compreso chi non lo capiva. Forse è cultural appropriation. Di sicuro, se Diego ci vede dall’aldilà, se la ride di gusto

26 novembre 2020


5′ di lettura

Questo pezzo è ispirato a una storia vera. Una storia che parla di amore e morte. Quelli bravi dicono che l’uno è lo specchio dell’altra. Non ho un pensiero preciso sull’argomento, ma forse amore e morte sono in un certo senso parenti, così come devono esserlo la vita e l’odio. Partiamo dall’amore: è il 10 maggio 1987, Napoli per la prima volta campione d’Italia è ai piedi del suo re – che si chiama Diego Armando Maradona – e fino a Salerno è tutto un carosello di macchine azzurre. A metà strada tra Napoli e Salerno, praticamente a Pompei, sul tettuccio di una macchina vedo un ragazzino che suona il tamburo, avvolto in un’enorme sciarpa blu. Lo riconosco: si chiama Antonio, viene a scuola con me ed è uno juventino sfegatato.

Maradona, racconto d’amore

Faccio fatica a credere ai miei occhi: «quell’Antonio» sta festeggiando lo scudetto del Napoli. L’indomani lo incontro tra i banchi e gli chiedo conto di questa curiosa conversione in zona Cesarini. Se la cava con un po’ di filosofia: «Mettiamo che tu stai raccontando una barzelletta a Nicola», mi dice. «Io passo per caso dietro di voi e la sento. Sarò padrone di ridere pure io, anche se la barzelletta non era rivolta a me? Così è andata con lo scudetto. Sono juventino ma ho visto la festa, mi è piaciuta e ho festeggiato pure io». Sulle prime ero tentato di rispondergli che con una certa difficoltà sarei disposto a ridere di una barzelletta, se quella barzelletta prendesse in giro proprio me, ma faccio buon viso a cattivo gioco. È il potere dell’amore: il Napoli è campione, penso, il sentimento è nell’aria ed è giusto che tutti respirino a pieni polmoni. Juventini compresi.

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Maradona, racconto di morte

Adesso parliamo di morte. Diego Armando Maradona lascia questa valle di lacrime e, tempo una manciata di minuti, tutti si tolgono il cappello. E, quando dico tutti, intendo proprio tutti. Le rivali calcistiche di sempre, tanto per cominciare. In Argentina, il River Plate su Twitter gli dedica un «Hasta Siempre». La Nazionale inglese lo definisce «unforgettable» e ce lo mostra in quel celebre 1-2 messicano della «Mano de Dios». Il Belgio condivide un altrettanto celebre scatto della semifinale mondiale 1986 in cui sei poveri diavoli rossi provano a marcarlo e fa autoironia: «È stato un onore competere con te». Qui da noi la Juventus condivide la sublime punizione toccatagli indietro da Pecci in quel Napoli-Juve del 1985. Quando persino a Villar Perosa si fa autoironia, significa che il momento è davvero epocale. Sui social e nei giornali pure quelli che, fino all’altro ieri, hanno criticato, contestato, irriso Maradona, quelli che ne hanno messo in discussione il primato di calciatore più forte di sempre, sembrano aver repentinamente cambiato idea. Come si spiega? È il potere della morte: il distacco è testimone incorruttibile della grandezza di ciò che perdiamo. E accomuna tutti quelli che restano. Anche se, in tempi di pace, la pensavano in maniera diversa.

Maradona, l’uomo che amavate odiare

Voglio cambiare prospettiva pure io: sono sempre stato maradoniano ma, morto Maradona, il punto di vista degli anti-maradoniani di ieri mi sembra più interessante di quello di chi vive a Napoli, dove in queste ore troupe televisive si aggirano a caccia di folklore. Perché Maradona, in vita, non fece niente per farsi amare da quanti stavano «dall’altra parte». Anzi: era l’uomo che amavate odiare, genio divisivo, a suo modo sempre partigiano, un eroe antagonista che, brechtianamente, aveva scelto di sedersi dalla parte del torto, «visto che tutti gli altri posti erano occupati». Mi ricordo, sì, io mi ricordo di quando arrivò in Italia e si fece Masaniello, tribuno di una plebe sempre a caccia di nuovi santi e spesso vittima della retorica di chi la racconta. Una plebe che in quel numero dieci, più che un santo, trovò un dio. Prima di quel Napoli-Milan in cui dovette cedere lo scudetto a Sacchi, Diego arringò il suo popolo, rimarcando la piaga della discriminazione territoriale: «Non voglio vedere neanche una bandiera rossonera». Prima della famigerata semifinale dei Mondiali del ’90 che vedeva nella sua Napoli, contrapposte, l’Italia e la sua Argentina, fece di più: «Gli italiani si ricordano di Napoli una volta l’anno», disse.

«Tira Diego che Napoli ti abbraccia»

Viene quasi da scomodare il Vangelo di Matteo: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada». Quella partita andò a finire come sappiamo e in finale, all’Olimpico, l’Italia si produsse in un tributo eccezionale al giocatore più forte di tutti i tempi, fischiandogli l’inno nazionale. Diego rispose a suo modo, con un «hijos de puta» a favore di telecamera, mentre i suoi compagni di squadra cantavano l’inno. Nella stagione successiva, così all’improvviso, venimmo a scoprire che Maradona era tossicodipendente, assistemmo alla sua fuga notturna, come il peggiore dei mariuoli, leggemmo articolesse moraleggianti, sentimmo persino canzoncine che ironizzavano: Tira Diego che Napoli ti abbraccia. Guarda tu le coincidenze: chissà per quanti anni è andato avanti il circo, ma dopo Italia ’90 Maradona è drogato. Adesso la Serie A gli dedica un minuto di silenzio.

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