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Manzoni, il 5 Maggio e la mazurka dei voltagabbana

Mag 4, 2021

AGI – Più che l’anniversario di Napoleone sembra l’anniversario della Maturità: “Scriva il candidato il perché e il percome Manzoni Alessandro scrisse in una delle sue opere giovanili un’ode in memoria di Napoleone Bonaparte, sottolineandone gli aspetti ancor validi per la cultura contemporanea e gli spunti che se ne possono trarre per una riflessione sull’Italia di oggi”. L’incubo di ogni maturando. Il tema su Manzoni.

Inevitabile la riflessione autobiografica in ognuno di noi, perché quando ad esempio proprio a noi toccò erano otto lustri da ora, e otto lustri prima la Francia chiedeva a compensazione della Guerra il Col di Tenda e tutta la Val d’Aosta. Peggio che Napoleone con Venezia a Campoformio. Bonaparte nostro fratello e contemporaneo.

Si studiava, e si studia ancora, che l’ode venne spontanea all’Autore alla notizia della Sua scomparsa. In effetti resiste tuttora nel suo stile un non so che di nevrotico, nel primo verso, a dispetto di quelli successivi e di tutta la prosa dei Promessi Sposi, che invece è piana e serena come il pelo dell’acqua del Lago di Como.

“Ei fu”. Punto. Plastico, scultoreo, definitivo. Canova, nelle sue statue dell’Imperatore, non era riuscito a far di meglio. Diremmo ciceroniano: “Vixerunt” proclamò per annunciare con una parola sola l’esecuzione dei catilinari. Azzardiamo: persino mussoliniano.

Come il Trono di Spade

Non suoni ad insulto l’ultimo accostamento, dacché (ci perdoni la buonanima di Cesare Garboli) con quel periodo breve e reciso Manzoni in qualche modo anticipava tanta prosa del Novecento, soprattutto quella degli anni ’30. Thomas Edward Lawrence ma poi anche Italo Calvino  e il suo “C’era una guerra contro i Turchi”.

Oggi, infine, si è arrivati a R. R. Martin: “Le tenebre stavano avanzando”. Punto e a capo. E giù con tutto il Trono di Spade.

Certo, il Trono di Spade è cosa ben diversa, e anche il prosieguo del Cinque Maggio torna subito nello scartamento – ridotto – dell’ode paleo ottocentesca d’occasione. Lo ammettono tutti, anche i più sfegatati supporter, che Lisander è Alessandro il Grande, ma solo nei Promessi Sposi. Questo però non vuol dire, perché se è vero che la spoglia immemore e l’orba di tanto spiro son cose da masochisti dell’italiano, è vero altrettanto che quell’ode, quello stupore involuto furono prodromici all’eccellenza successiva.

Non esisterebbero Renzo e Lucia e Don Abbondio e l’Innominato, senza quei versi. Non esisterebbero, soprattutto, gli osti e la folla e Ambrogio Fusella e nemmeno i monatti e la canaglia che vede leghe e congiure cospirazioniste dietro ogni fatto. Non esisterebbe l’Italia di Manzoni, in una parola, che poi è quella di oggi, di ieri, di sempre.

Manzoni, tutte queste cose, le aveva capite già prima di scrivere il Cinque Maggio. Proprio perché si era arrivati al 5 maggio del 1821, e prima erano avvenuti molti accadimenti che lui aveva visto da vicino.

Le famose tesi gramsciane sostengono che il Risorgimento nazionale fu inoculato nel corpo esangue della Penisola dalla punta delle baionette napoleoniche, con la Campagna d’Italia. Sommo paradosso della Storia: il Corso venne a gettare i germi dell’unità ma prima regalò la Serenissima agli austriaci. Ma questa non fu l’unica contraddizione del periodo.

Ancora adesso i polacchi, nel loro inno nazionale, cantano la mazurka – intesa come marcia – del generale napoleonico Dabrowski, che sognava sì l’indipendenza della Polonia ma intanto reprimeva nel sangue le rivolte ad Arezzo. Tempi confusi e calamitosi, in cui un passo falso poteva costare assai. Tempi in cui emerse in tutta la sua prepotenza una figura destinata a grandissimo successo, proprio come l’incipit dell’Ei Fu, nel Novecento.

Il Voltagabbana.

Il voltagabbana, per carità, esisteva probabilmente già da prima, ma fu con quel ventennio di stravolgimenti che mise radici nella nostra cultura. Intesa, quest’ultima, non solo come insieme di usi e costumi nazionali, ma proprio come cultura in senso stretto. Quella che Manzoni conosceva meglio.

Il 17 marzo di Jacopo Ortis

Si prenda il caso di Raffaele Stern, figlio di architetti papalini e architetto papalino egli stesso. Arrivati i Francesi a Roma dopo il secondo arresto di un Pontefice, riuscì a farsi nominare responsabile della riforma artistica e urbanistica di Roma, dove Napoleone immaginava di venire a stare almeno per un po’ con Maria Luisa e l’Aquilotto loro figlio. Rifece per la famiglia imperiale un intero appartamento al Quirinale. Quando fu Waterloo, lo completò per festeggiare il ritorno in Città di Sua Santità Pio VII.

Grandi maestri, Talleyrand e Fouché, ma anche grandissimi allievi. In Italia se ne ricordano uno, nessuno e centomila. Questi ultimi sono i borghesi piccoli piccoli costretti a passare, più o meno volentieri, dal servizio alla burocrazia asburgica a quella francese a quella asburgica. Ma è roba da poco, si tratta di pesciolini che rischiavano altrimenti di affogare nel mare degli stravolgimenti. In fondo dei nessuno.

 A volerne ricordare uno, invece, ne ricordiamo un paio. Ma sono nomi grossi. Ugo Foscolo, che era veneziano, aprì le braccia all’Armata d’Italia, ma quando venne concesso all’Austria dal liberatore insieme a tutti i suoi concittadino prese a nutrire sincero sdegno, e non si potrebbe dargli torto. Aveva scritto l’Ode al Bonaparte liberatore? Se la rimangiò ufficialmente. Un coraggioso che controcorrente andò fino in fondo.

Almeno apparentemente, perché poi divenne professore ed ufficiale dopo essersi ingraziato Augusto Caffarelli, aiutante di campo dell’Imperatore e ministro della guerra del Regno d’Italia. Eroicamente, nel 19813, mentre tutti davano il suo mentore per spacciato causa la disastrosa campagna di Russia, chiese addirittura di tornare al servizio effettivo. Ma poi fu beccato a trescare con l’Austria, al momento di stendere il programma di una rivista letteraria che avrebbe imbrigliato il consenso della classe intellettuale ai vecchi e nuovi padroni. Gli austriaci vollero imporgli un giuramento di fedeltà, perché non si fidarono, e solo allora partì per Londra.

Ma ristampò nel 1816, in Svizzera, le Ultime lettere di Jacopo Ortis, aggiungendone una. Era datata 17 marzo e vi si definiva Napoleone “basso e vile”, come già durante i Cento Giorni lo aveva stigmatizzato come “Silla Frenetico”. Il 17 marzo è sempre di gran voga il parlar male di Cesare.

Niente, però, in confronto a Monti. Questi tessè le lodi del Papa, poi scrisse la Mosogonia per fare lo stesso con l’Austria (che con il Papa non andava molto d’accordo) ma al momento opportuno ne soppresse l’edizione per farne circolare un’altra uguale in tutto e per tutto, salvo che per un particolare. Ora lodava Napoleone. Lasciò Roma per andare a Milano, ma i locali giacobini non è che lo presero molto sul serio dato il suo recente passato. Tornò a fare il panegirico di Napoleone ma quando fu il caso scrisse Il Ritornodi Astrea per glorificare Vienna.

E Manzoni? Disilluso nei confronti di Napoleone dopo il 1797, nel 1814 scrisse: “Il tiranno è caduto: sorgete / genti oppresse, l’Italia respira”. Ma non finì la canzone e non si sa perché. Ad ogni modo, nell’apprendere dell’esito di Waterloo, venne colto da malore.

Infine il 5 maggio, come si sa, lasciò la questione in sospeso: “fu vera gloria?”. Chiedetelo ai posteri. I contemporanei non ci capiscono più nulla. O, meglio, si dichiarano inadeguati.

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