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Ma che fine ha fatto Clubhouse?

Feb 9, 2023

AGI – C’è stato un momento in cui Clubhouse sembrava la nuova agorà. Pare passata una vita, era l’altro ieri. In piena pandemia, l’app che permette di organizzare eventi in diretta audio esplode. Nel giugno 2021 raggiunge il proprio picco globale, con 17 milioni di utenti mensili attivi.

In quei giorni incassa un round d’investimento che porta la raccolta complessiva a 110 milioni di dollari e la valutazione della società a 4 miliardi. Poi il crollo e, oggi, qualcosa che si avvicina all’irrilevanza.

Utenti e download: il tracollo

Secondo i dati forniti all’Agi dall’analista di SensorTower Abe Yousef, lo scorso anno le installazioni dell’app sono diminuite dell’83% su scala globale e addirittura del 95% in Italia rispetto al 2021. 

Rispetto al picco, gli utenti mensili attivi lo scorso dicembre sono diminuiti dell’83% su scala globale e dell’85% nel nostro Paese, dove comunque la platea è sempre stata sproporzionata rispetto alla visibilità. Tutti ne parlavano, ma pochissimi frequentavano Clubhouse. Secondo il Garante della Privacy, nel 2021 il social contava circa 90.000 utenti in Italia.

Cosa c’entra il Garante? Lo scorso dicembre ha comminato all’app una multa da 2 milioni di euro per “numerose violazioni”: “Scarsa trasparenza sull’uso dei dati degli utenti e dei loro ‘amici’; possibilità per gli utenti di memorizzare e condividere gli audio senza consenso delle persone registrate; profilazione e condivisione delle informazioni sugli account senza l’individuazione di una corretta base giuridica; tempi indefiniti di conservazione delle registrazioni effettuate dal social per contrastare eventuali abusi”.

Meno integralismo per salvarsi

Clubhouse ci ha provato e ci sta provando a sfuggire all’irrilevanza. Anche a costo di abbandonare l’audio-integralismo. Ha introdotto le chat, per “consentire agli utenti di comunicare tra loro durante una diretta” e dare agli organizzatori la possibilità di “ottenere feedback in tempo reale”. Lo scorso anno ha lanciato anche Wave, una funzione per organizzare eventi in modo più rapido e, soprattutto, Houses, una sorta di app nell’app che permette a chiunque di creare comunità private, con le proprie regole. 

È una sterzata netta rispetto all’idea iniziale: da “club” in una sola “casa” a tante “case” diverse. Da spazio aperto (seppure su invito) basato su un tema di comune interesse a spazi chiusi basati sulla conoscenza personale. A giugno, Bloomberg ha riferito di “licenziamenti” dovuti a un “cambio di strategia”.

Cosa non ha funzionato

Il successo di Clubhouse è evaporato con la stessa velocità con cui era arrivato. Il lancio delle chat e di Houses conferma il tentativo di smarcarsi dall’integralismo audio e da un meccanismo di accesso troppo elitario. Hanno pesato i ritardi: l’app è stata a lungo disponibile solo per iOS, cioè solo per chi aveva un iPhone.

La versione per Android (cioè per il sistema operativo più diffuso al mondo) è arrivata solo nel maggio 2021 e quella web solo a gennaio 2022, quando la propulsione si era già esaurita da un pezzo. Senza dimenticare la poca chiarezza su come e quanto i creatori di contenuti possano monetizzare.

Come ammesso dal co-fondatore e ceo di Clubhouse Paul Davison in un’intervista a Bloomberg dell’ottobre 2021, la società – che al momento del boom aveva appena otto dipendenti – non era pronta a gestire una crescita così rapida. Comprensibili. Nella stessa intervista, però, Davison rivela una lettura che, oggi, suona come una condanna: “Quando emerge un nuovo medium, la compagnia che si focalizza su quel medium finisce per esserne il leader. Per i testi è stato Twitter, per le foto è stato Instagram, per i video Youtube. Penso che per il social audio sarà lo stesso”.

Il mondo dei social, però, è profondamente diverso rispetto a quello degli esordi di Youtube (2005), Twitter (2006) e Instagram (2010). Oggi non basta più arrivare primi per essere primi. Visto il successo di Clubhouse, praticamente ogni piattaforma ha creato una funzionalità simile, da Twitter Spaces a Facebook Live Audio Rooms, da LinkedIn a Spotify Live. “L’ampia concorrenza ha schiacciato l’app”, conferma Abe Yousef.

Una concorrenza che in realtà è una prassi capace di soffocare le nicchie prima che diventino un problema. Succede così: una buona idea viene assorbita da piattaforme per le quali è solo una funzionalità tra le tante, che la mettono a disposizione di una platea ben più ampia, drenando l’app “arrivata prima”. Per le big è una piccola scommessa con enormi potenzialità. Per le piccole è la fine. È un po’ quello che è successo a Snapchat, l’app che ha inventato i contenuti a tempo. Il suo declino (arrivato comunque dopo aver raggiunto livelli finanziari e di popolarità incomparabili con quelli di Clubhouse) è iniziato quando Mark Zuckerberg ha deciso di copiare pari pari il format, portando le Storie su Facebook e Instagram.

Il social audio è stata solo una bolla?

Al di là di ritardi e concorrenza, c’è sempre il solito problema dell’eccessivo entusiasmo. Basta poco, pochissimo, per parlare di app rivoluzionaria, di futuro dei social e di “prossimo TikTok”. Al momento, la parabola di Clubhouse ricorda più quella di Periscope. La piattaforma che permetteva a chiunque di diffondere video in diretta sembrava dovesse scardinare il modo tradizionale di raccontare e mostrare il mondo. Acquisita da Twitter nel 2015, è presto sparita dai radar, per poi essere chiusa nel 2021.

Vale però la pena chiedersi se Clubhouse sia il dito o la Luna. È la storia di un’app che non ha rispettato le (astronomiche) aspettative oppure è il social audio a essere stato una bolla? Sì, perché – a differenza dei contenuti evanescenti in stile Snapchat, che si sono imposti un po’ ovunque – a rimanere nicchia non è stata solo Clubhouse: nessuno dei suoi omologhi ha sfondato. Forse i tempi non sono maturi. O forse gli audio in diretta sono destinati a essere gregari: una funzionalità tra altre, ma non il centro di un’intera piattaforma.

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