Trentasettemila anni fa, una donna diede il suo ultimo sguardo sul mondo. Era un mondo duro, e la caverna dove morì, a Vindija, cioè al confine tra quelle che oggi sono Croazia e Slovenia, era frequentata non solo da altre persone, ma anche da orsi di una specie gigantesca e da altri animali. Il clima era molto più freddo di oggi, anche se si era in un periodo di miglioramento; in Europa, le persone vivevano in piccole bande, riparandosi come potevano, cacciando e raccogliendo ciò che trovavano.
Lei si spense, e forse l’ultima cosa che vide fu la luce che filtrava dall’apertura della grotta di Vindija; presto fu del tutto dimenticata, e le ossa che un tempo avevano sorretto il suo corpo divennero inerti e immemori come le pietre e la terra che le circondavano.
Eppure, per una circostanza inimmaginabile e incredibile, 37.000 anni dopo un suo femore fu amorevolmente raccolto da qualcuno simile a lei, anche se non esattamente come lei. Uomini e donne, sì, ma di una specie differente, che ha del tutto rimpiazzato la sua gente, provarono a chiedersi se fosse possibile sapere qualcosa di più di lei, e tentarono qualcosa che mai nessuno prima aveva osato.
Utilizzando strumenti da dentista, nei laboratori dell’istituto Max Planck di antropologia evolutiva, a Lipsia in Germania, un gruppo di ricercatori, guidati da un allampanato cinquantenne svedese dall’aspetto giovanile, ridusse in polvere un piccolo campione del femore di quella antica signora Neanderthal, tra le ultime della sua specie; e la signora, per tramite del suo DNA, così come altri pochissimi individui della sua antica specie, ha potuto raccontare a tutti noi una storia incredibile, grazie alla caparbietà di quel suo remoto successore svedese, che come noi condivide con i Neanderthal una piccola parte del proprio genoma.
Non era per niente scontato: ai tempi in cui il gruppo di ricercatori di Lipsia provò ad estrarre l’antico DNA, non si sapeva come separarlo dal DNA di altri organismi contaminanti, quali funghi e batteri. Peggio ancora, le manipolazioni delle ossa antiche, per quanto attente, introducono facilmente contaminazione con DNA moderno, che potrebbe rendere irrecuperabile il debole segnale proveniente dalla specie cugina cui appartenevano i campioni. Proprio per questi motivi, quando fu annunciato per la prima volta, ad appena 5 anni dal sequenziamento del genoma umano, che si sarebbe provato ad estrarre e sequenziare i genomi di antiche specie precedenti la nostra, furono in molti a pensare, e qualcuno a che a dire, che la cosa sarebbe stata impossibile, e che il risultato sarebbe stato sempre e comunque molto dubbio.
Costoro non avevano fatto i conti con le capacità e l’ostinazione dello svedese e del suo gruppo: pochi anni dopo, intorno a San Valentino del 2009, il mondo ricevette l’annuncio che il 63 per cento della sequenza del DNA dell’antica signora di Vindija, ma anche quello di altri pochi individui, aveva parlato.
Le prime cose che apprendemmo quando i dati furono pubblicati furono già sorprendenti: innanzitutto, i Neanderthal costituiscono una popolazione molto omogenea geneticamente, sia nel tempo che nello spazio. Per centinaia di migliaia di anni, hanno cioè rappresentato quasi una sola, grande famiglia estesa, i cui componenti si trovavano ai quattro angoli dell’Eurasia. E poi la seconda sorpresa: quasi alla fine della loro epopea, quegli antichi abitanti delle nostre terre si sono più volte incrociati con una specie diversa di invasori africani: eravamo noi, o meglio i nostri remoti antenati. Per questo, gli abitanti dell’Eurasia, ma non gli africani, oggi portano nel proprio genoma pezzi di DNA neandertaliano, a testimonianza del fatto che tutti loro, nella propria famiglia, hanno qualche remoto nonno di Neanderthal.
Poi, in un flusso sempre crescente, sono arrivate altre scoperte, sempre più incredibili: un’altra specie, coeva di Neanderthal e dei primi Sapiens, ovvero l’uomo di Denisova, che si è variamente incrociata proprio con i Neanderthal; il DNA del figlio di uno di questi incroci; e poi il colore dei capelli, e perfino alla nostra vulnerabilità al COVID-19, ma soprattutto una ricostruzione via via più accurata del modo in cui varie specie umane hanno popolato il mondo, sono solo alcuni esempi dell’incredibile quantità e qualità di informazione che lo studio degli antichi DNA umani ha consentito di ottenere.
Ebbene, oggi celebriamo quell’allampanato svedese, il professor Svante Pääbo, che grazie alla sua ostinazione, alla sua bravura e al suo intuito tecnologico ha permesso tutto questo e ha vinto il premio Nobel per la Medicina e la Fisiologia. Per ridare un po’ di voce ad una antica signora Neanderthal, e poi a numerosi suoi antenati e discendenti e ad altre persone di altre specie, Pääbo ha utilizzato la più futuristica delle tecnologie, e così ha fatto parlare il passato; e così oggi, al posto del mito, possiamo contemplare i fatti della scienza, per far luce sulle nostre stesse origini.