Nella tarda serata del 31 agosto, intorno alle 23, Amarena, una femmina di orso marsicano del Parco Nazionale d’Abruzzo ben nota al vasto pubblico per frequentare con i suoi cuccioli anche il centro dei paesini di montagna del suo areale, è stata uccisa a fucilate appena al di fuori dei confini del parco, arrecando un danno gravissimo alla popolazione di circa una sessantina di orsi marsicani che
sopravvivono nel nostro paese.
Chi ha sparato è stato identificato, e le indagini degli inquirenti provvederanno a chiarire motivazioni del gesto e sua natura più o meno criminale; nel frattempo, però, la fama di quella iconica madre orso è tale, che persino all’estero si è immediatamente ravvivato il dibattito intorno ai problemi derivanti dalla convivenza sempre più stretta tra una popolazione di grandi carnivori europei (lupo e orso) in recupero, a seguito di pluridecennali campagne di educazione e protezione, e le popolazioni umane, in ispecie rurali, che di questo aumento fanno maggiormente le spese, sia come danni effettivi, sia come pressione psicologica.
La fucilata del 31 di agosto ha innanzitutto mandato in frantumi la comunicazione di quel “modello Abruzzo” che veniva per esempio contrapposto al Trentino e alla locale gestione degli orsi; ma questo tipo di danno, se ci si riflette, sarà quello più facilmente rimediabile, perché è ovvio che anche nella più virtuosa delle popolazioni l’azione di un singolo sconsiderato può portare alle conseguenze che abbiamo visto già fin troppo spesso.
Il problema effettivo, quello che non è più possibile ignorare, è che, lungi dal trovare una soluzione condivisa, la nostra comunità, anche per quel che riguarda la convivenza con i carnivori ed i suoi costi, ha preso a dividersi immediatamente nelle
solite curve da stadio. Perché si possa discutere di fatti e di soluzioni concrete, c’è soprattutto bisogno di abbandonare un’immagine demonizzante del proprio interlocutore. Per iniziare, è assolutamente necessario riconoscere sia che la convivenza con la fauna selvatica – non solo i grandi carnivori, pensiamo per esempio all’origine del Covid – ha dei costi seri, che non sono un’invenzione di chi vive in ambiente rurale o che sperimenta direttamente il contatto con gli animali (ormai anche in ambiente urbano). Questi costi sono ripartiti in maniera assolutamente iniqua, e gravano su pastori, agricoltori, ma anche semplici abitanti di zone più periferiche, in maniera selettiva e sproporzionata, aumentando di pari passo con la ripresa degli animali selvatici (associata a fenomeni di diverso tipo, dall’abbandono rurale all’adattamento etologico di diverse specie).
Inoltre, chi riceve il danno, molto più spesso del contrario, riceve anche la beffa: le procedure per i risarcimenti sono lunghe, complesse, spesso inconcludenti e non adeguate rispetto alla reale entità dei fatti, e allo stesso tempo le misure di protezione richiedono costi aggiuntivi e comportano difficoltà che non sono facilmente sopportabili da chiunque, al di là della propria
volontà.
Le amministrazioni, nazionali e locali, hanno una parte di responsabilità non indifferente, ma esse stesse sono vincolate frequentemente ad una legislazione vischiosa e ambigua, di attuazione non immediata e che rende ancor meno efficiente l’intervento del burosauro con cui il cittadino deve avere a che fare. Questo senza contare il gravissimo danno che l’assuefazione all’uomo causata in grandi predatori andrebbe evitata a tutti i costi, impedendo il più possibile l’accessoai paesi e ad aree densamente abitate, invece di incoraggiare turisti e locali a familiarizzare con gli animali, e se del caso disponendo cibo nei boschi in periodi di particolare scarsità alimentare, per diminuire il richiamo degli insediamenti umani; altro che video social di mamma orsa o dei cervi in paese, sarebbe ora di riconsiderare il danno che l’alterata etologia di una specie potrà in seguito produrre.
Dunque – e lo dice chi, per vocazione e professione, ama profondamente la fauna dei nostri boschi – è ora di finirla sia con la favola dei risarcimenti che magicamente compensano a dismisura il danno, sia con l’idea che chiunque lamenti la pressione della fauna selvatica sia uno sconsiderato armato di fucile, tagliola e veleno e che ha come unico fine l’affermazione della propria superiorità prendendosi la vita di un altro essere.
Dall’altra parte, è ora anche di finirla con l’idea che chiunque manifesti il suo sdegno per un’uccisione inutile, per una crudeltà gratuita, per la voglia di doppietta (e perfino di arco e frecce!) che certi manifestano, sia un radical-chic che vive in città, osservando con il bicchiere in mano la bellezza del paesaggio da distanza di sicurezza. L’essere umano è una delle specie più invasive che siano mai apparse su questo pianeta, e considerando l’ammontare complessivo di materiali ed energiache sta sottraendo e degradando al pianeta, è ovvio che, per la sua stessa sopravvivenza, è ora che cominci ad essere più controllato nei propri comportamenti e più rispettoso della barca in cui si trova con moltissime altre specie.
La difesa antropocentrica della vita umana non è una buona ragione per continuare, come se nulla fosse, a sterminare qualunque altra vita, a partire da quelle che rappresentano per tradizione il nemico, il predatore o il concorrente: la bellezza della vita, in ogni sua manifestazione, va tutelata proprio come facciamo con le opere d’arte, non abbattendo il Colosseo anche se la sua presenza lede probabilmente gli interessi di chi vorrebbe costruire qualche nuovo supermercato in zona centrale a Roma.
Questo, naturalmente, senza neppure considerare il fatto che un ecosistema necessita dei suoi predatori apicali, per mantenere intatti i servizi ecologici di cui noi abbiamo assoluta necessità per la nostra stessa sopravvivenza nel lungo termine: non siamo in grado, infatti, di rimpiazzare il prodotto di miliardi di anni di coevoluzione, e stiamo già premendo troppo per la nostra semplice presenza fisica in soprannumero, per poterci anche permettere la volontaria eliminazione anche di pochi predatori apicali, senza che ci sia un validissimo motivo (come, del resto, previsto dalla normativa).
Dunque, la maggioranza di chi mostra i problemi dovuti alla coesistenza con la fauna selvatica, così come la maggioranza di coloro che ne esaltano il valore, è fatta di persone che, rinunciando alla macchiettizzazione delle posizioni altrui, potrebbero cominciare a ragionare in concreto di come affrontare, caso per caso, l’inevitabile attrito tra la nostra specie e le altre. Poi, certo, esistono sia gli imbecilli armati di ignoranza e doppietta, quelli che cercano una rivalsa sugli animali per la loro irrimediabile insufficienza personale, sia gli altri imbecilli che parlano a sproposito di equivalenza etica fra la vita di un uomo e quella di un lupo, auspicando l’estinzione della nostra specie a vantaggio delle altre: e sono proprio questi gli imbecilli che ciascuna parte dovrebbe mettere a calci alla porta, perché è da loro che parte quella radicalizzazione che impedisce di imparare dalla scienza (tutta, anche quella che a ciascuna parte non piace) e di affrontare un problema con occhi nuovi, insieme, e non in guerra, con altri.
Amarena è morta nel peggiore dei modi, ed è giusto che chi è colpevole paghi a caro prezzo; ma la lezione che dalla morte di questo amatissimo plantigrado dobbiamo trarre è un allarme, che dovrebbe a tutti far vedere come, nel modo in cui stiamo procedendo finora, non si va da nessuna parte.