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Lucca Comics & Games 2019: abbiamo incontrato Chris Claremont

Nov 1, 2019

“Il mio obiettivo è sempre stato uno: entrare in contatto con i lettori. Voglio arrivare ai lettori di tutto il mondo, voglio tutti. Pensate, venendo qui ho incontrato una ragazzina che mi ha chiesto un autografo sulla sua copia di X-Men, questo per me è il massimo risultato raggiungibile.

Quando ho iniziato a scrivere X-Men, il mondo dei fumetti americani era ancora governato dal comics code autorithy, dovevamo seguire regole severe per poter essere letti anche dai bambini. Ma non fu un problema, anzi, ci spinse a scrivere storie profonde e che fossero leggibili a più livelli. In quelle storie sono presenti dettagli che si scoprono crescendo, che sfuggono da adolescenti ma che divengono evidenti con la maturità. Quelle restrizioni ci hanno spronato, hanno spinto me, Frank Miller o Simonson a realizzare trame profonde e narrate con sottigliezza.

Quello che mi ha sempre incuriosito non è tanto veder ciò che accade nella vignetta, ma immaginare quello che avviene nello spazio bianco tra due vignette. Ci son cose che non devono essere per forza esser rappresentate, si possono immaginare. Non mi serve veder nudo Batman per capire che si mette la sua Bat-tuta, lo vedo benissimo nella mia mente. Ecco, ora servirebbe un’ora di confessioni, ma questa è un’altra storia!

Tornando alla domanda, per me dalla mia prima pagina di X-Men sino all’ultima è tutto un’unica storia. Esattamente come la vita, compresi i momenti salienti e le lunghe pause riflessive. Se avessi scritto X-Men per 30 anni, sarebbe sempre andata così. Quello che accade ai personaggi è reale per loro, e voglio che anche i lettori percepiscano questa realtà. E quindi, proprio come accade nella vita vera, anche nelle storie a fumetti ci sono dettagli che sfuggono, o che avranno sviluppi inattesi in futuro. Giri a sinistra anziché a destra ad un bivio, e la tua vita va in un’altra direzione. Non avessi fatto lo scrittore per Marvel, magari sarei divenuto un attore, o un commesso. Non puoi mai sapere dove ti conduce la vita, devi seguire il tuo istinto.

Mi chiedete se era tutto programmato? Si. No. Insomma, puoi programmare quanto vuoi, ma è la vita che ti porta a cambiare.

Quando iniziai a lavorare con Cochrum su X-Men, il suo personaggio preferito era Nightcrawler. Assomigliava al classico demone, eppure era il personaggio più religioso. Kurt vive il suo esser mutante in quest’ottica, come se fosse un dono divino ed eccolo pensare ‘Se Dio mi ha dato questi poteri, godiamoceli, quante cose fighe posso fare!”

Byrne, invece, adorava Wolverine e non comprendeva questa complessità di Nightcrawler. Anche Byrne è canadese come il personaggio, e John ha trasformato Wolverine nel più grande spaccaculi del mondo, ma quando ho lavorato su Wolverine con Miller, invece, abbiamo trovato un’affinità, realizzando una storia che amassimo entrambi, passando ore a parlare su come svilupparlo: Benvenuto in Giappone!

Inizialmente, Wolverine poteva esser un cliché. Quando venne creato, ad esempio, i suoi artigli erano parte dei guanti, chiunque li indossava li avrebbe avuti. Io e Dave non concordavamo su questo, Wolverine non poteva esser come Tony Stark (chiunque indossi la sua armaturapuò esser Iron Man), doveva esser più unico, come Superman.

Per il numero 98, Dave mi presenta una vignetta in cui Wolverine è disegnato col pugno nudo e gli artigli sguainati. La mia prima reazione è stata di disgusto, ma poi ho subito pensato: è fighissimo. Orribile, ma comunque fighissimo.

Avete presenta la scena del primo x-Men, quando Logan e Rogue son in macchina e lei gli chiede se gli artigli fanno male? Logan risponde: Ogni volta. Quando ho visto quella scena alla premiere sono scattato in piedi urlando contento, con mia moglie che mi ha dato un pugno dicendomi ‘Siediti, ti stai rendendo ridicolo’. Ma in quella scena c’è l’identità di Wolverine, ogni volta che estrae gli artigli è come si stesse pugnalando. Immaginate che sensazione possa essere, rende il gesto un momento speciale, intenso, da non abusare, da controllare in una storia, rendendolo fondamentale. Il lettore deve percepire che è una cosa figa, ma non dimenticare mai che Wolverine non è un bravo ragazzo.”

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