Poche persone dubitano che viviamo in un’era di perdita di biodiversità senza precedenti. Tuttavia, affermazioni forti richiedono un forte supporto da parte dei dati: in questo caso, indicatori affidabili del cambiamento della biodiversità.
Uno degli indicatori più popolari dello stato attuale della natura è stato l’LPI, pubblicato due volte all’anno dal World Wildlife Fund nel The Living Planet Report. Secondo l’LPI, dal 1970 l’abbondanza delle popolazioni di vertebrati è diminuita in media di due terzi. Fin da quando questo numero fu pubblicato per la prima volta, alcuni ricercatori sospettarono che fosse in qualche modo problematico. Sappiamo tutti che molte specie diminuiscono rapidamente, ma gli ecologi sul campo sono allo stesso tempo consapevoli di molte popolazioni che sono aumentate negli ultimi decenni: ad esempio, molti grandi predatori sia in Europa che in Nord America si stanno ora diffondendo rapidamente, così come molte specie aliene in aree geografiche diverse da quelle di origine.
Ancora più importante, analisi precedenti basate su indagini sistematiche di tutte le popolazioni di un grande taxon in vaste regioni hanno indicato aumenti e diminuzioni della popolazione sorprendentemente equilibrati. Da dove veniva allora un numero così spaventoso come quello dell’indice LPI? Il problema potrebbe essere che le indagini standardizzate in genere comprendono solo alcune regioni dell’emisfero settentrionale, mentre un campionamento globale più completo potrebbe rivelare un quadro diverso.
Così, nel 2019 alcuni ricercatori hanno ripreso ad esaminare più da vicino i dati dal Living Planet Database, la base dell’LPI, per vedere se le popolazioni di vertebrati provenienti da diverse parti del mondo rispetto a quelle considerate nell’indice rivelassero tendenze diverse da quella specificata nel rapporto. Come scoperto da David Storch del Dipartimento di Ecologia, Facoltà di Scienze e del Centro per gli studi teorici (CTS) della Charles University, questo è esattamente quanto è stato verificato. Invece che una diminuzione media globale, estendendo le aree campionate le popolazioni di vertebrati in aumento e in diminuzione erano più o meno equilibrate indipendentemente dalla regione o dal particolare gruppo di animali considerato. Alla stessa conclusione sono giunti diversi studi pubblicati più o meno nello stesso periodo: come dice il titolo di uno di questi articoli, nell’Antropocene esiste un equilibrio tra vincitori e vinti. Allora come è possibile che l’LPI, sulla base di tipi di dati simili, suggerisca un calo così pronunciato?
Concentrandosi sull’analisi del calcolo che porta all’LPI, sono stati riscontrati diversi problemi documentati in una nuovo articolo appena pubblicato da Nature Communications, che distorcono l’indice calcolato indicando un declino generale della popolazione di vertebrati anche quando la diminuzione e l’aumento della popolazione sono equilibrati.
La direzione della distorsione causata da tali problemi è sempre verso la diminuzione dell’LPI. Se tali errori sono corretti in maniera opportuna, il declino medio delle popolazioni di vertebrati è sostanzialmente inferiore a quanto finora sembrava guardando ai dati del Living Planet Report, e per la versione non ponderata dell’LPI (in cui le regioni e i taxa non sono pesati in base alla ricchezza di specie), non è possibile rilevare alcuna diminuzione media.
Dunque, tutto bene, da un punto di vista ecologico? No di certo. Intanto, il nuovo studio dimostra solo che l’indice LPI, come finora calcolato, è inaffidabile, per una serie di problemi di calcolo e di campionamento; tuttavia, avvisano gli autori del nuovo lavoro, molte regioni che sono state gravemente trasformate dall’uomo non sono state campionate, e le diminuzioni locali più gravi dei vertebrati potrebbero quindi comunque mancare dal Living Planet Database, usato per calcolare l’indice.
Inoltre, un indice che tenga conto della consistenza e della diversità delle popolazioni di vertebrati, non coglie comunque i cambiamenti sostanziali che vi possono essere negli ecosistemi, con la popolazione di alcune specie che può esplodere (si pensi ai cinghiali o alle gazze in Italia), mentre altre possono essere gravemente diminuite: questo ha comunque effetti pesanti da un punto di vista ecologico, effetti che possono sia riverberarsi al di fuori del gruppo considerato (i vertebrati), sia che possono poi risultare fatali per interi ecosistemi diminuendone per esempio la resilienza al cambiamento climatico o ad altre perturbazioni. Il bilanciamento rapido con la sostituzione di certi vertebrati da parte di altri in termini di abbondanza, cioè, potrebbe essere la turbolenta fase di transizione verso un nuovo assestamento ecologico, il cui esito finale potrebbe comunque essere un impoverimento. D’altro canto, è possibile che molte popolazioni di vertebrati si stiano riprendendo dal collasso avvenuto già prima del 1970, come per esempio nel nostro paese, a seguito della diminuzione dei terreni agricoli, dell’aumento della riforestazione e della diminuzione della pressione venatoria in molte parti del paese più civili. Sarebbe del resto ingenuo supporre che la pressione sulle popolazioni di vertebrati sia iniziata negli anni ’70: molte popolazioni di vertebrati furono gravemente sfruttate già nel XIX secolo e nella prima metà del secolo scorso, e si sono ripresi invece negli ultimi decenni grazie alla crescente consapevolezza globale delle questioni ambientali e ai cambiamenti socioeconomici in tutto il mondo.
La sostanza che si ricava da questo ultimo studio è quindi una ed importante: affidarsi ad un singolo indice, peraltro come in questo caso di debole base statistica, è del tutto inappropriato per valutare davvero la complessa dinamica accelerata a cui la nostra invadente presenza sta costringendo tutte le specie viventi. Semplificare, magari anche per ragioni comunicative, non è la soluzione.