Nel mese di maggio 2017 l’AGCM, Autorità Garante della concorrenza e del mercato, ha avviato una doppia istruttoria nei confronti di WhatsApp, avente ad oggetto, da un lato, il metodo di acquisizione del consenso da parte degli utenti per l’utilizzo dei dati personali e, dall’altro, la conoscibilità di una serie di clausole contrattuali di carattere vessatorio (ovvero disposizioni che comportano uno squilibrio contrattuale ai danni del consumatore: “nel contratto concluso tra il consumatore ed il professionista si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto”, art. 33 d.lgs. n. 206/2005).
L’AGCM ha concluso entrambi i procedimenti con dei provvedimenti di condanna a carico di WhatsApp: l’applicazione di una sanzione di 3.000.000 di euro nel primo caso e l’obbligo di pubblicare sul sito web e di notificare tramite l’applicazione agli utenti il provvedimento della stessa AGCM nel secondo. Vediamo, quindi, quali sono state le violazioni commesse da WhatsApp e perché qualche giorno fa la stessa è stata nuovamente sanzionata dall’AGCM.
Il condizionamento degli utenti per l’acquisizione dei dati personali
Il 25 agosto del 2016 WhatsApp ha modificato i propri Termini d’uso e l’informativa sulla privacy resa agli utenti,introducendo, tra l’altro, la condivisione con Facebook, con scopi commerciali e di profilazione, di alcuni dati personali (tra cui, ad esempio, il numero di telefono dell’utente ed informazioni sul dispositivo utilizzato e sugli accessi al servizio). Trattamento di dati personali di per sé possibile, ma che il titolare può effettuare soltanto dopo aver correttamente acquisito il relativo consenso da parte dell’interessato.
L’AGCM ha rilevato la violazione da parte di WhatsApp degli articoli 20 (“Una pratica commerciale è scorretta se è contraria alla diligenza professionale, ed è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori”), 24 (“È considerata aggressiva una pratica commerciale che, nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, mediante molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica o indebito condizionamento, limita o è idonea a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio in relazione al prodotto e, pertanto, lo induce o è idonea ad indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”) e 25 (“Nel determinare se una pratica commerciale comporta, ai fini del presente capo, molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica, o indebito condizionamento, sono presi in considerazione i seguenti elementi: a) i tempi, il luogo, la natura o la persistenza; b) il ricorso alla minaccia fisica o verbale; c) lo sfruttamento da parte del professionista di qualsivoglia evento tragico o circostanza specifica di gravità tale da alterare la capacità di valutazione del consumatore, al fine di influenzarne la decisione relativa al prodotto; d) qualsiasi ostacolo non contrattuale, oneroso o sproporzionato, imposto dal professionista qualora un consumatore intenda esercitare diritti contrattuali, compresi il diritto di risolvere un contratto o quello di cambiare prodotto o rivolgersi ad un altro professionista; e) qualsiasi minaccia di promuovere un’azione legale ove tale azione sia manifestamente temeraria o infondata”) del Codice del Consumo (d.lgs. n. 206/2005) in relazione alle modalità di acquisizione del consenso da parte degli utenti.
Difatti, con il breve avviso che compariva agli utenti in occasione delle suddette modifiche apportate ai Termini d’uso, veniva loro richiesto di accettare entro 30 giorni le nuove disposizioni “per continuare ad utilizzare l’applicazione”. E, una volta decorso tale termine, l’avviso agli utenti era diventato ancora più forte, essendo stata aggiunta la seguente specificazione: “se non desideri accettare, dovrai interrompere l’uso di WhatsApp”. In poche parole, l’utente si trovava di fronte all’alternativa tra accettare integralmente le nuove condizioni introdotte da WhatsApp oppure rinunciare definitivamente all’utilizzo del servizio, con cancellazione dell’account.
WhatsApp avrebbe, invece, dovuto riconoscere agli utenti il diritto di accettarne soltanto parzialmente i contenuti, decidendo, in particolare, di non fornire l’assenso a condividere le informazioni del proprio account WhatsApp con Facebook e di continuare, comunque, a utilizzare l’applicazione. Invece, anche chi si fosse addentrato aprendo le successive pagine per visualizzare le modifiche introdotte avrebbe comunque trovato la casella di accettazione con un segno di spunta già impostato. Tant’è che, per rifiutare la condivisione di dati personali, superflua per il semplice utilizzo di WhatsApp, l’utente avrebbe dovuto, prima, superare il pulsante “accetta” visualizzato nell’avviso, poi aprire la pagina successiva, e, infine, rimuovere il segno di spunta dalla casella di condivisione dei dati, cliccando solo a questo punto sul pulsante “accetto”.
L’AGCM ha concluso, quindi, che WhatsApp ha posto in essere una pratica commerciale manifestamente grave e scorretta: l’aggressività della condotta realizzata, infatti, emergeva chiaramente dall’aver fatto credere falsamente agli utenti che in mancanza di tale concessione non avrebbero più potuto fruire dell’applicazione. Condotta che portava i consumatori a prestare un consenso alla cessione di dati personali in cambio di servizi molto più ampio di quello che sarebbe stato sufficiente per poter usufruire dell’applicazione.
L’Autorità di conseguenza ha vietato a WhatsApp la continuazione di tale condotta, “contraria alla diligenza professionale e idonea a falsare in apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio, limitando considerevolmente la libertà di scelta del medesimo in relazione al servizio fornito dal Professionista, mediante indebito condizionamento esercitato nella fase di accettazione dell’aggiornamento dei Termini di utilizzo di WhatsApp” ed ha sanzionato la società condannandola al pagamento di 3.000.000 di euro.
La mancata conoscenza delle clausole vessatorie
L’AGCM, però, ha rilevato anche che alcune disposizioni contenute nei Termini d’uso di WhatsApp (ad esempio, in tema di responsabilità contrattuale, risoluzione del contratto e modifiche unilaterali) presentavano un carattere vessatorio ai sensi del Codice del Consumo, “in quanto tali da determinare, a carico del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto” (Delibera AGCM, n. 26596 del 2017).
Infatti, alla luce della situazione di inferiorità in cui viene a trovarsi in questi casi il consumatore, il professionista è tenuto a rispettare particolari obblighi di informazione con lo scopo di portare a conoscenza degli utenti le condizioni contrattuali per lui più svantaggiose.
Nel caso di WhatsApp, invece, l’utente si trovava ad accettare i Termini di utilizzo semplicemente “installando, accedendo o utilizzando” i servizi forniti. Secondo l’AGCM, tale modalità violava il Codice del Consumo, perché escludeva tanto la trattativa individuale delle condizioni contrattuali, quanto la possibilità per l’utente di avere consapevolezza circa la vessatorietà di una serie rilevante di disposizioni contenute nel contratto concluso con WhatsApp.
Anche in questo caso, quindi, l’Autorità Garante condannava la condotta di WhatsApp e la obbligava a dare diretta conoscenza a tutti i propri utenti del contenuto delle clausole vessatorie presenti nei Termini d’uso dell’applicazione, in particolare, mediante la pubblicazione per almeno 20 giorni consecutivi di un estratto del provvedimento di accertamento della violazione nella homepage del sito web e tramite notifica sull’applicazione.
La pubblicazione della delibera dell’Autorità e la diffusione (e relativa conoscenza) dello stessa tra gli utenti è, infatti, attualmente l’unico strumento che l’AGCM può utilizzare dopo aver accertato la vessatorietà delle clausole contrattuali per superare la violazione realizzata.
WhatsApp, tuttavia, ha ritenuto che tale disposizione (pubblicazione sul sito ed informazione tramite notifica agli utenti) fosse ridonante e non necessaria per un’informativa dei consumatori e ha deciso, quindi, di non darvi applicazione e di non adempiere a quanto richiesto dall’AGCM.
Questa reazione da parte della società è il motivo per cui qualche giorno fa l’AGCM ha sanzionato nuovamente WhatsApp, condannandola, questa volta, anche al pagamento di un importo pari ad euro 50.000,00 per la mancata esecuzione di quanto previsto dal precedente provvedimento a suo carico.
Conclusioni
La Commissione europea (che si è soffermata su questi aspetti in particolare anche nel caso n. COMP/M. 7217-Facebook/Whatsapp) ha da tempo riconosciuto che i dati personali e le preferenze dei consumatori (e degli utenti dei social media in particolare) hanno un valore economico concreto e sono oggetto di importanti scambi commerciali. I dati che gli utenti forniscono, infatti, hanno natura di controprestazione non pecuniaria e le aziende ricavano dal loro utilizzo introiti sostanziosi.
Troppo spesso, però, i fornitori di servizi innovativi, in particolare nel cosiddetto settore dei “consumer communication services”, pongono in essere delle condotte commerciali aggressive ai danni dei consumatori, approfittando, tra l’altro della rapidità e dell’immediatezza con cui si concludono rapporti contrattuali, ma anche della sottovalutazione, da parte degli utenti stessi, dei diritti che sono loro riconosciuti dalla legge.
Le aziende, infatti, fanno leva sull’utilizzo quotidiano che molti utenti fanno di certi servizi, diventati ormai abituali mezzi di interazione sociale, inducendo i consumatori ad accettare incondizionatamente e a scatola chiusa i termini di utilizzo che vengono loro proposti, rimanendo completamente all’oscuro sia di disposizioni contrattuali per loro sconvenienti, sia dell’uso che verrà fatto dei propri dati personali e, addirittura, dello stesso valore attribuito a tali dati.
Sarebbe quindi opportuno sia che gli operatori del settore operassero con maggiore chiarezza e trasparenza, dando applicazione ai doveri previsti a loro carico dalla legge, sia che gli stessi consumatori si approcciassero con una maggiore consapevolezza ai servizi di comunicazione e prestassero maggiore attenzione nella conclusione di contratti online.