Cento anni fa, in questi giorni, si svolgevano a Montecarlo, le “Olimpiadi della Grazia”. Dietro questa gentile e apparentemente innocua etichetta si celava una polemica in atto da più di un decennio.
Quelle organizzate dall’International Sporting Club del Principato monegasco non erano delle vere Olimpiadi. Più propriamente si trattava – e per questo oggi, alla tonda distanza di un secolo, è bello ricordarlo – del primo meeting internazionale di atletica leggera femminile. Il riferimento a Olimpia non era affatto casuale. Fin dai primi anni del Novecento in seno all’ancor giovane Comitato olimpico internazionale era sorta una contrastata questione: consentire o meno la partecipazione delle atlete donne ai Giochi olimpici. A più riprese, il barone Pierre De Coubertin aveva espresso il suo deciso parere negativo. Nel 1912 scriveva infatti: “Una piccola Olimpiade muliebre a fianco della grande Olimpiade. Dove sarebbe l’interesse?”. “Gli organizzatori già oberati, le difficoltà d’alloggio già formidabili, le spese già eccessive, occorrerebbe raddoppiare il tutto! Chi accetterebbe di farsene carico? Poco pratica, scarsamente interessante e inestetica”. E ancora, in un’altra occasione: “Lo sport è una passione che, come tutte le passioni, non può (mi si passi l’espressione) non generare scompiglio. Solo che a differenza della maggior parte delle passioni, questo scompiglio è fecondo e i suoi vantaggi superano di molto i suoi inconvenienti […]. Ebbene! Questo scompiglio non è fatto per le donne. Esso non giova loro mai. Se esse vogliono affrontarlo, che avvenga nel loro privato”.
Chissà se lo “scompiglio” cui alludeva il barone era lo stesso che aveva provocato nel 720 a.C. la causa del bando femminile dalle prove olimpiche. Durante una prova di corsa, avvenne che Orrhippos, atleta di Megara, perse il perizoma e vinse. Da quel momento si capì che, ai fini della “performance”, meglio sarebbe stato che gli atleti gareggiassero, come dire… liberi e belli. Di conseguenza, che le donne distogliessero lo sguardo; anzi, meglio ancora, che se ne stessero alla larga dagli stadi!
Più o meno due millenni e mezzo dopo, De Coubertin probabilmente la pensava ancora così. Il che non aveva impedito tuttavia che avvenissero timide apparizioni femminili fin dalla seconda edizione, quella di Parigi 1900, e solo in alcune ben delimitate discipline: il tennis, il golf, la vela, l’equitazione e il croquet (quel gioco con la mazza e le bocce da far passare negli archetti…). A dirla tutta, l’anatema decoubertiniano ebbe un effetto di lunga durata, se si guardano le percentuali delle partecipazioni delle atlete femminili alle Olimpiadi. Ancora fino a Barcellona 1992 la “quota rosa” era inferiore a un terzo e solo alle ultime di Rio ha raggiunto il “picco” del 45 per cento.
Dopo la Prima Guerra mondiale le donne sulla pista di atletica continuavano a essere assai malviste. Fiera antagonista della misoginia decoubertiana era la francese Alice Milliat, pioniera dello sport femminile di inizio Novecento. Nel 1917, consociando alcuni club che coraggiosamente propugnavano la pratica sportiva delle donne, fondò la Federazione Francese degli Sport Femminili. Invano nel 1919 chiese al CIO che nel programma delle Olimpiadi di Anversa venissero inserite delle prove di atletica femminile.
Allora due anni dopo fece da sé. Grazie alla sua capacità organizzativa, dal 24 al 31 marzo 1921 andarono in scena a Montecarlo le “Olimpiadi della Grazia”. Vi parteciparono rappresentative di Francia, Gran Bretagna, Norvegia, Danimarca e Italia. Racconta Sergio Giuntini, nel suo dettagliatissimo saggio La rivoluzione del corpo. Le italiane e lo sport: dalla “signorina Pedani” a Ondina Valla (Aracne, 2019), precisa che la selezione azzurra era composta interamente dalle atlete della società Pro Patria et Libertate di Busto Arsizio.
La partecipazione italiana non portò alcun successo: troppo grande ancora la differenza di preparazione tecnica e atletica con le avversarie europee. Una cronaca della Gazzetta dello Sport, che si legge sempre nel libro di Giuntini, descrive così l’evento: “Noi avevamo qui una squadra in massima parte di studentesse dai 12 ai 18 anni, che dovrebbero formare il nucleo della futura generazione delle sportive, ed abbiamo dato tutto quanto era possibile per gareggiare con le rappresentanti delle altre nazioni, che sono delle vere atlete”. Nelle prove sui 60 metri piani le ragazze bustesi scontarono gap di varia natura: “Le nostre avevano scarpe a punta e soprattutto erano tarde in partenza. Tutte le rappresentanti delle altre nazioni fruivano infatti della partenza a terra (all’americana)”.
In quello stesso 1921 al Milliat diede vita alla FSFI, la Fédération Sportive Féminine Internationale che per tutti gli anni Venti costituì una combattiva alternativa al CIO. A partire dal 1922, a cadenza quadriennale, organizzò delle “contro-Olimpiadi” femminili, e la sua pressione contribuì ad allentare i pregiudizi del CIO. I risultati non si fecero attendere: nel 1925 De Coubertin diede le dimissioni e alle Olimpiadi del 1928, ad Amsterdam, cinque prove di atletica leggera femminile furono ammesse nel programma ufficiale. Nel 1935 la FSFI compiuta la sua missione storica si sciolse e confluì nella Federazione Interazionale di Atletica Leggera (IAAF).
Nel 1936 Ondina Valla, alle Olimpiadi di Berlino, sarebbe stata la prima atleta italiana a vincere un oro olimpico, e proprio in una specialità dell’atletica leggera, gli 80 metri ostacoli. Ma ad aprire la strada erano state, quindici anni prima, le ragazze di Busto Arsizio con le scarpe a punta.
Cento anni fa, in questi giorni, si svolgevano a Montecarlo, le “Olimpiadi della Grazia”. Dietro questa gentile e apparentemente innocua etichetta si celava una polemica in atto da più di un decennio.
Quelle organizzate dall’International Sporting Club del Principato monegasco non erano delle vere Olimpiadi. Più propriamente si trattava – e per questo oggi, alla tonda distanza di un secolo, è bello ricordarlo – del primo meeting internazionale di atletica leggera femminile. Il riferimento a Olimpia non era affatto casuale. Fin dai primi anni del Novecento in seno all’ancor giovane Comitato olimpico internazionale era sorta una contrastata questione: consentire o meno la partecipazione delle atlete donne ai Giochi olimpici. A più riprese, il barone Pierre De Coubertin aveva espresso il suo deciso parere negativo. Nel 1912 scriveva infatti: “Una piccola Olimpiade muliebre a fianco della grande Olimpiade. Dove sarebbe l’interesse?”. “Gli organizzatori già oberati, le difficoltà d’alloggio già formidabili, le spese già eccessive, occorrerebbe raddoppiare il tutto! Chi accetterebbe di farsene carico? Poco pratica, scarsamente interessante e inestetica”. E ancora, in un’altra occasione: “Lo sport è una passione che, come tutte le passioni, non può (mi si passi l’espressione) non generare scompiglio. Solo che a differenza della maggior parte delle passioni, questo scompiglio è fecondo e i suoi vantaggi superano di molto i suoi inconvenienti . Ebbene! Questo scompiglio non è fatto per le donne. Esso non giova loro mai. Se esse vogliono affrontarlo, che avvenga nel loro privato”.
Chissà se lo “scompiglio” cui alludeva il barone era lo stesso che aveva provocato nel 720 a.C. la causa del bando femminile dalle prove olimpiche. Durante una prova di corsa, avvenne che Orrhippos, atleta di Megara, perse il perizoma e vinse. Da quel momento si capì che, ai fini della “performance”, meglio sarebbe stato che gli atleti gareggiassero, come dire… liberi e belli. Di conseguenza, che le donne distogliessero lo sguardo; anzi, meglio ancora, che se ne stessero alla larga dagli stadi!
Più o meno due millenni e mezzo dopo, De Coubertin probabilmente la pensava ancora così. Il che non aveva impedito tuttavia che avvenissero timide apparizioni femminili fin dalla seconda edizione, quella di Parigi 1900, e solo in alcune ben delimitate discipline: il tennis, il golf, la vela, l’equitazione e il croquet (quel gioco con la mazza e le bocce da far passare negli archetti…). A dirla tutta, l’anatema decoubertiniano ebbe un effetto di lunga durata, se si guardano le percentuali delle partecipazioni delle atlete femminili alle Olimpiadi. Ancora fino a Barcellona 1992 la “quota rosa” era inferiore a un terzo e solo alle ultime di Rio ha raggiunto il “picco” del 45 per cento.
Dopo la Prima Guerra mondiale le donne sulla pista di atletica continuavano a essere assai malviste. Fiera antagonista della misoginia decoubertiana era la francese Alice Milliat, pioniera dello sport femminile di inizio Novecento. Nel 1917, consociando alcuni club che coraggiosamente propugnavano la pratica sportiva delle donne, fondò la Federazione Francese degli Sport Femminili. Invano nel 1919 chiese al CIO che nel programma delle Olimpiadi di Anversa venissero inserite delle prove di atletica femminile.
Allora due anni dopo fece da sé. Grazie alla sua capacità organizzativa, dal 24 al 31 marzo 1921 andarono in scena a Montecarlo le “Olimpiadi della Grazia”. Vi parteciparono rappresentative di Francia, Gran Bretagna, Norvegia, Danimarca e Italia. Racconta Sergio Giuntini, nel suo dettagliatissimo saggio La rivoluzione del corpo. Le italiane e lo sport: dalla “signorina Pedani” a Ondina Valla (Aracne, 2019), precisa che la selezione azzurra era composta interamente dalle atlete della società Pro Patria et Libertate di Busto Arsizio.
La partecipazione italiana non portò alcun successo: troppo grande ancora la differenza di preparazione tecnica e atletica con le avversarie europee. Una cronaca della Gazzetta dello Sport, che si legge sempre nel libro di Giuntini, descrive così l’evento: “Noi avevamo qui una squadra in massima parte di studentesse dai 12 ai 18 anni, che dovrebbero formare il nucleo della futura generazione delle sportive, ed abbiamo dato tutto quanto era possibile per gareggiare con le rappresentanti delle altre nazioni, che sono delle vere atlete”. Nelle prove sui 60 metri piani le ragazze bustesi scontarono gap di varia natura: “Le nostre avevano scarpe a punta e soprattutto erano tarde in partenza. Tutte le rappresentanti delle altre nazioni fruivano infatti della partenza a terra (all’americana)”.
In quello stesso 1921 al Milliat diede vita alla FSFI, la Fédération Sportive Féminine Internationale che per tutti gli anni Venti costituì una combattiva alternativa al CIO. A partire dal 1922, a cadenza quadriennale, organizzò delle “contro-Olimpiadi” femminili, e la sua pressione contribuì ad allentare i pregiudizi del CIO. I risultati non si fecero attendere: nel 1925 De Coubertin diede le dimissioni e alle Olimpiadi del 1928, ad Amsterdam, cinque prove di atletica leggera femminile furono ammesse nel programma ufficiale. Nel 1935 la FSFI compiuta la sua missione storica si sciolse e confluì nella Federazione Interazionale di Atletica Leggera (IAAF).
Nel 1936 Ondina Valla, alle Olimpiadi di Berlino, sarebbe stata la prima atleta italiana a vincere un oro olimpico, e proprio in una specialità dell’atletica leggera, gli 80 metri ostacoli. Ma ad aprire la strada erano state, quindici anni prima, le ragazze di Busto Arsizio con le scarpe a punta.