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Le privatizzazioni mancate e lo scatto atteso con il nuovo governo

Gen 20, 2018

Sebbene la campagna elettorale tenda a sottolineare gli aspetti più “popolari” (e costosi) dei programmi e taccia, o tenga in secondo piano, le misure necessarie e più complesse o dolorose, un nodo che inevitabilmente bisognerà sciogliere nella prossima legislatura sarà quello delle privatizzazioni. Se non altro perché non esiste organismo internazionale, dall’Fmi alla Commissione, dall’Ocse alla Bce, che non insista su questo punto.

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I governi che si sono succeduti nei cinque anni appena trascorsi hanno fatto, anche se avrebbero potuto fare di più. Un primo bilancio ci dice che l’introito netto delle operazioni che sono state fatte, soprattutto nel biennio 2015-2016 è stato di 6 miliardi tondi che sono stati portati diligentemente a riduzione del debito. La cessione al mercato del 5,7 per cento dell’Enel nel febbraio del 2015 ha fruttato 2,1 miliardi; la vendita, sempre nel 2015, del 35,3 per cento delle Poste ha procurato risorse per 3,1 miliardi; mentre il 46,6 per cento dell’Enav, l’ente di controllo del traffico aereo, ha prodotto un incasso di 833 milioni. Sebbene non siano andate a riduzione del debito, perché si tratta di cosiddette privatizzazioni di secondo livello, cioè di aziende possedute da compagnie controllate dal Tesoro, sono da considerare di rilievo le cessioni di Grandi Stazioni (950 milioni) e di Ray Way (300 milioni).

Si poteva fare di più? Forse. Senz’altro una di quelle operazioni che viene considerata una occasione mancata è quella delle Poste: nelle intenzioni la partecipazione dello Stato nell’azienda sarebbe potuta scendere intorno al 30 per cento, allineandosi sostanzialmente con Eni, Enel e Leonardo-Finmeccanica. Invece, soprattutto per veti politici all’interno della maggioranza e dello stesso Pd, la seconda tranche di Poste non si è fatta e lo Stato complessivamente controlla ancora circa il 64,2 per cento. Come bisogna ricordare che nel bilancio dello Stato padrone, a fine legislatura, va associato anche il salvataggio del Monte dei Paschi, prima banca che torna in portafoglio dopo la stagione di cessioni degli Anni Novanta, della quale il Tesoro attualmente possiede il 68,25 per cento.

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E’ vero che il coraggio non è mancato, come ad esempio quando si è condotta in porto con successo l’operazione Enav nel pericoloso day after del Brexit. Ma è vero anche che il 2017 è stato piuttosto “scarso” tant’è che il target dei proventi è stato rivisto al ribasso nella Nota di aggiornamento al Def dell’autunno scorso dallo 0,3 allo 0,2 per cento del Pil.

La sfida è ora tutta indirizzata all’anno in corso, e il testimone passa al nuovo governo. “Non si tratta di fare cassa, la filosofia giusta, che peraltro abbiamo adottato, non è ideologica: pensiamo infatti che il mercato e la Borsa possano migliorare l’efficienza e la competitività delle imprese. Questo vale per le società sotto il controllo dello Stato, ma anche per le imprese private” annota Fabrizio Pagani, capo della segreteria tecnica del ministro dell’Economia Padoan.

Sul tavolo ci sono almeno un paio di operazioni da decidere e una opportunità strategica da considerare. Le due operazioni sono la cessione dell’Alta velocità, un modello in Europa, e la seconda tranche di Poste: entrambe potrebbero fruttare circa 5-6 miliardi. L’operazione più complessa, contenuta in un progetto del Tesoro che resta in eredità al prossimo governo, riguarda la Cassa depositi e prestiti: un grande conferimento alla holding di Stato di tutte le partecipate del Tesoro per un patrimonio di circa 20 miliardi con il conseguente collocamento presso i risparmiatori dei nuovi titoli. Ma su questa dovrà pronunciarsi il prossimo esecutivo.

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