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L’accusa del pm Woodcock: “A Napoli nella lotta alla camorra la borghesia è assente “

Set 9, 2016

«Il dramma dei ragazzi stritolati dalla spirale della camorra non si risolve nei salotti. E’ un fenomeno criminale imponente, che ci riguarda tutti, a cominciare da quella borghesia che dovrebbe decidersi, una volta per tutte, ad uscire dal suo isolamento», ragiona Henry John Woodcock, il magistrato che ha rappresentato la pubblica accusa al processo sulla “paranza dei bimbi” di Forcella.

Mercoledì il pm era a Venezia, per assistere alla proiezione di Robinù, il documentario curato da Michele Santoro sui giovani che si fanno la guerra nel Centro storico della città. Più o meno nelle stesse ore, scoppiava la rivolta nell’istituto penale minorile di Airola e in via Toledo una raffica di colpi di pistola veniva esplosa durante una “stesa”.

Ce n’è abbastanza per una riflessione severa, che chiama in causa una porzione precisa della città, che appare troppo spesso distante dai problemi concreti della metropoli. «Credo che tutti i napoletani debbano vedere quel documentario – afferma Woodcock – Soprattutto quelli che appartengono alla cosiddetta “Napoli bene”, quella borghesia più o meno “alta” che spesso fa finta di niente perché trova più conveniente ignorare il problema, oppure, peggio ancora, lo affronta, lo analizza e immagina anche di poterlo risolvere con quella punta di inesorabile snobismo che la caratterizza da sempre».

Nel mirino del pm che, dopo aver indagato sui grandi intrecci del potere si occupa ormai a tempo pieno delle ramificazioni dei clan, c’è proprio «quella parte della borghesia partenopea che si considera illuminata e che tende a concentrare le sue energie in sterili discussioni e dibattiti consumati in questo o quel salotto alla moda, magari prima o dopo l’assaggio di un gustoso piatto cucinato con l’ultima ricetta. Ma nel frattempo, il fenomeno è ormai entrato a pieno titolo nel salotto di Napoli: non si spara solo a Forcella o a Scampia, ma fra piazza Municipio, piazza del Plebiscito e il teatro San Carlo».

Ecco perché, secondo il pm Woodcock, il film Robinù «dovrebbe essere proiettato, prima di tutto, nei teatri e nei cinema delle zone residenziali della città. Andrebbe inserito nel programma di quei cineforum frequentati dalla quella parte di napoletani preoccupati solo di ritrovare l’auto o la moto all’uscita del cinema e di andare a cenare, senza essere disturbati dall’altra parte della città che avvertono come estranea e diversa rispetto a loro. Si tratta, a mio avviso, di un documento straordinario il cui pregio principale è quello di non evocare nessuna sensazione né di pietismo né di eroismo. Un vero e proprio atto di denunzia, forte e diretto, nel quale a parlare sono solo i ragazzi (e i parenti) protagonisti delle storie raccontate; non a caso sparisce e risulta silenziata anche la voce dell’intervistatore».

Ma in che modo si possono salvare questi ragazzi? «Come rappresentante delle istituzioni e come operatore giudiziario – argomenta il pm Woodcock – mi sento solo di poter dire che anche la repressione di questi fenomeni criminali deve essere innanzitutto portata avanti abbandonando la contrapposizione tra “buoni e cattivi”. Questa logica non porta da nessuna parte. D’altro canto, però, come napoletani non bisogna schernirsi o quasi vergognarsi nel rappresentare e nel denunziare, anche pubblicamente e a gran voce, la drammaticità di un fenomeno che non solo esiste e che è imponente, ma che riguarda il ventre della nostra città». Una realtà che, sottolinea il magistrato, «rappresenta peraltro anche l’espressione di un’energia che, se fosse riconvertita in termini positivi, potrebbe dare risultati straordinari. Proprio in quelle zone la città ha saputo dimostrare, sin dal dopoguerra, anche una straordinaria umanità e la capacità di mettere insieme culture diverse, aprendosi all’integrazione degli immigrati. Molti anni prima, mi verrebbe da dire, della Norvegia».

Per il futuro, il pm ha una speranza, già espressa durante la requisitoria pronunciata

insieme al pm Francesco De Falco al termine del processo sulla “paranza dei bambini”. «Indubbiamente, la visione di Robinù suscita rabbia e amarezza. Ma per quanto mi riguarda, conservo l’auspicio che le istituzioni possano trovare il modo per garantire a questi ragazzi una seconda opportunità, magari facendo in modo che, scontata la pena possano lasciare il crimine e tornare alle botteghe artigiane dei loro genitori e dei loro nonni».

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