AGI – “C’era folla ‘dda matina, lu sapeva Giulianu/ ma la folla un lu sapeva,/ e ballava ‘nni ‘ddu chianu./Cu cantava, cu sunava, cu accordava li canzuni/ e li tavuli cunzati di simenzi e di turruni./Picciriddi addormentati ni lu pettu di li madri,/piccididdi in carusedduu ni lispalli di li patri./Scecchi e muri senza sedda attaccati a li carretti/e li cani scapulati n’ menzu i a robbi e bicicletti”.
Ignazio Buttita, il grande poeta dialettale siciliano, raccontò esattamente 60 anni fa in questa poesia nella raccolta “Lu trenu di lu suli” (per le edizioni Avanti Milano nel gennaio 1963; un anno dopo il poeta sarebbe stato accompagnato dalla musica di Otello Profazio in uno storico LP per la Cetra) la mattina del primo maggio 1947, quando da Piana degli Albanesi, San Cipirello e San Giuseppe Jato, piu’ di duemila tra contadini e braccianti con le loro famiglie, si incamminarono verso Portella della Ginestra per celebrare la festa dei lavoratori.
I contadini dei paesi vicini erano soliti radunarsi a Portella della Ginestra per la festa del lavoro gia’ ai tempi dei Fasci siciliani, per iniziativa del medico e dirigente contadino socialista Nicola Barbato, che parlava alla folla da un podio naturale che fu in seguito denominato “Sasso di Barbato”. La tradizione venne interrotta durante il fascismo e ripresa dopo la caduta della dittatura.
Nel 1947 non si festeggiava solo il primo maggio, ma pure la vittoria dei partiti di sinistra raccolti nel Blocco del popolo nelle prime elezioni regionali svoltesi il 20 aprile. Sull’onda della mobilitazione contadina che si era andata sviluppando in quegli anni le sinistre avevano ottenuto un successo significativo, ribaltando il risultato delle elezioni per l’Assemblea costituente.
La Democrazia cristiana era scesa dal 33,62% al 20,52%, mentre le sinistre avevano avuto il 29,13% (alle elezioni precedenti il Psi aveva avuto il 12,25% e il Pci il 7,91%). “Un successo – ha spiegato all’AGI lo storico Salvatore Lupo – ma non una vittoria. In realtà il Blocco non aveva, contrariamente a quel che si dice, alcuna possibilità di andare al governo della regione. De Gasperi era già riuscito, dal canto suo, a spaccare il movimento separatista e trarne i voti necessari per il governo del paese. Da Roma arriva il segnale che la strada è l’alleanza tra le destre: le destre sono molto più forti su scala regionale che nazionale, prendono molti più voti alle locali che nazionali, dove il voto di destra si concentra sulla Dc. Se la strage ha un grande significato politico, è sul piano regionale: in una situazione in cui si va all’accordo tra destre e Dc, con destre composite e indipendentismo in via di sfaldamento, serve sapere chi farà e come farà questo accordo, se in una situazione di estrema tensione o meno. Qualcuno cerca di far salire la tensione per aumentare il prezzo della propria collaborazione“.
Poco dopo le dieci, mentre era in corso il comizio, i primi spari: i fucili e le mitragliatrici della banda Giuliano puntati su una folla inerme: “Di lu munti la Pizzuta ch’è rimpettu di lu chianu/ spara supra di la folla cu la banda Giulianu,/ a tappetu ed a ventagghiu mitragghiavano li genti/ como fauci ca meti cu lu foco ni li denti”. Furono undici i morti e 27 i feriti.
La matrice della strage, annota Umberto Santino, fondatore del Centro di documentazione Peppino Impastato, apparve chiara in quel momento: la voce popolare indicò i proprietari terrieri, i mafiosi e gli esponenti dei partiti conservatori. Per molti fu l’inizio della strategia della tensione, crocevia della storia oscura non solo della Sicilia, ma anche dell’Italia del secondo dopoguerra.
“Portella – sottolinea ancora Lupo – serve ad alimentare la tensione, nella speranza che i movimenti di sinistra rispondano sullo stesso piano, così da creare una guerra civile. La strage avviene nel momento della disintegrazione del movimento separatista, nel suo momento terminale, in cui qualcuno ritiene che l’unico modo per uscire da questa crisi sia sparare sui comunisti, sperando che questi rispondano, e che questo avrebbe portato alla necessità di uomini d’ordine”.
A terra, dopo il fuoco di Giuliano, restano i morti, i feriti, chi li soccorre, chi si dispera: Dopo un quartu d’iddu focu/vita morti e passioni/Li banditi si ‘nni ieru/ senza chiù munizioni”, cantano Buttitta e Profazio. “Quando spararono – raccontò due anni fa Serafino Petta, superstite della strage – mi nascosi in una buca. Mia sorella era sul mulo con mio cugino, che la prese subito in braccio e il mulo scappò via. Io sono rimasto in quella buca fino alla fine della sparatoria”.
“Pe descriviri ‘sta straggi/ci vulissi un rumanzeri,/’sta chitarra un sapi chiangiri,/malidittu ‘stu misteri! Margherita la Clisceri ch’era ddà’ cu cincu figghi,/arristò cu l’occhi aperti/abbrazzata a tutti e cinqu/ni le vrazza della morte/un singhiuzzu d’innucenti/lu chiù nicu tra la panza/chiangi solu e non si senti. Si vu iti a la Purtedda,/ascultati chi vi dicu, ‘nni la panza di so’ matri/chiangi ancora lu cchiù nicu. E li morti sunnu vivi, li tuccati cu li manu,/ cu muriu a la Purtedda fu la mafia e Giulianu!”.