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La sorella del migrante morto al Cpr di Gradisca: “Vakhtang è stato ucciso”

Gen 24, 2020

A Chiatura, la città georgiana delle miniere bolsceviche e delle funivie, tremila chilometri a est di Gradisca di Isonzo, una donna piange il fratello che non ha più. Una donna che ha esaurito la speranza. «A chi volete che interessi il destino di un immigrato?». Non ha fiducia. «La giustizia? Per noi non cambia niente…». Non ha più forza. «Vogliamo solo riavere la salma». Disorientata da una morte senza senso, di cui poco o niente è riuscita a sapere, ma che lo stesso le fa gridare: «L’hanno picchiato, me l’hanno ucciso!». Asmat Jokhadze è la sorella di Vakhtang Enukidze, il georgiano di 38 anni deceduto sabato scorso all’ospedale di Gorizia, dopo essere stato trovato privo di conoscenza nella sua cella nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Gradisca.

Nei giorni precedenti, in quel Cpr di frontiera, era successo di tutto. Rivolte, proteste, le forze dell’ordine in assetto antisommossa. Enukidze ha un litigio nel cortile interno con un altro detenuto in attesa come lui dell’espulsione, pare per una questione legata a un telefonino. Gli agenti di polizia intervengono a sedare la rissa e, secondo alcune testimonianze adesso al vaglio della procura di Gorizia, in quell’occasione sono protagonisti di violenze nei confronti del georgiano. Enukidze viene anche arrestato, per lesioni e resistenza a pubblico ufficiale. Presenzia all’udienza di convalida davanti al giudice, e dopo due giorni torna al Centro. Chi lo ha visto al rientro lo ricorda «in condizioni pessime, incapace di stare in piedi». Gli vengono dati antidolorifici e ansiolitici, e, nella notte tra venerdì e sabato, si sente male. La procura ha aperto un fascicolo, a carico di ignoti, per omicidio volontario.

Asmat Jokhadze parla solo russo. La raggiungiamo al cellulare, ma risponde alle domande di Repubblica controvoglia. Esordisce cercando di chiudere subito la conversazione: «L’ambasciata georgiana in Italia ci sta aiutando per riavere la salma. Fino a quando non avremo il risultato dell’autopsia (prevista per lunedì, ndr), e nell’interesse stesso dell’indagine, mi hanno consigliato di non parlare coi giornalisti. Non chiamateci, non abbiamo niente da dire. I miei genitori sono anziani, sono devastati dal dolore. Non hanno nemmeno il corpo di loro figlio su cui piangere. Arrivederci…». Ma Asmat è una sorella ferita, anche da quanto ha letto sulla stampa, e quell’amarezza che la tormenta non riesce a trattenerla. «Vakhtang era sanissimo, non è vero che era malato! Sono state scritte tante falsità. Giocava a calcio qui a Chiatura, la città dove siamo cresciuti, e ha fatto anche l’imbianchino. È venuto in Italia due anni fa per cercare lavoro, ha vissuto a Roma, faceva dei lavoretti non so di che genere, ma non aveva il permesso di soggiorno e allora la polizia l’ha fermato e l’ha portato a Bari».

Il georgiano ha passato un periodo nel Centro rimpatri pugliese, poi il 19 dicembre scorso è stato trasferito, insieme ad altri stranieri, a Gradisca. «Me l’hanno ucciso, ma nessuno crederà a noi», ripete Asmat. «A chi volete che interessi il destino di un migrante morto? Mio fratello era una persona equilibrata, di buon carattere. Non era certo un violento». Stando a quanto sono riusciti a ricostruire finora gli inquirenti, però, Vakhtang aveva partecipato ad almeno due rivolte interne al Cpr, prima del litigio del martedì con un altro straniero. Gli sono stati dati dei farmaci sia in carcere sia dopo, ma la documentazione sanitaria acquisita al Cpr è parsa agli investigatori «frammentaria e poco coerente».

Asmat ha raccontato al Piccolo di Trieste di aver chiamato Vakhtang la sera prima del decesso, e di aver capito che stesse male dal fatto che il personale del Cpr gli aveva aumentato la dose dei farmaci. Sul punto, la donna non vuole aggiungere altro. «Non posso parlare», spiega. «In Italia di sicuro strumentalizzerete questa storia per speculazioni politiche». E quando le raccontiamo l’esito giudiziario che ha avuto, seppure dopo dieci anni, il caso di Stefano Cucchi, anche lui morto mentre era in custodia dello Stato, la risposta di Asmat chiude ogni discorso. «Sì, ma lui era italiano».

(ha collaborato Ekaterina Koshkina)

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