MILANO. Chiedono accesso ai ruoli operativi per le persone transessuali. E investimenti in formazione, per contrastare l’omofobia in caserme e commissariati. Sono duecento gli iscritti a Polis Aperta, associazione dei gay in divisa. Il quadruplo, contando chi chiede aiuto senza volere comparire. Molti sono agenti di polizia locale e finanzieri delle città del nord. Ma anche alpini e imbarcati in Marina.
“L’obiettivo è aiutare chi lo desidera a uscire dal silenzio – dice Simonetta Moro, in polizia locale a Bologna e presidente dell’associazione – . Noi gay in divisa siamo tanti”. Già, ma quanti? Fabio Pellegatta, presidente di Arcigay Milano, abbozza una stima: “Non c’è ragione di ritenere che i gay siano meno numerosi in esercito e forze dell’ordine rispetto alla media generale. Vale a dire, il 5 percento della popolazione”. Quindi fra i 310mila poliziotti, agenti penitenziari, finanzieri, carabinieri e forestali, i gay sarebbero 15.500. A cui si aggiungono 3.595 omosessuali su 71.900 soldati (carabinieri esclusi). Il contingente arcobaleno italiano conterebbe quindi 19mila attivi. Il doppio di tutti i soldati della Repubblica d’Irlanda.
I gay in divisa si sono dati appuntamento a Milano per il 10 ottobre, in un convegno alla Casa dei Diritti che mira a “spezzare uno dei tabù più duri da sconfiggere”. L’iniziativa ha il patrocinio del Consolato degli Stati Uniti, che con Israele sono fra i Paesi che hanno adeguato la legislazione militare all’inclusione di gay e trans. Fra gli ospiti, un transessuale ex agente del Mossad e la trans 49enne Stefania Pecchini, agente di polizia locale nel Milanese.
Polis Aperta chiede al governo investimenti in formazione, per “contrastare l’omofobia, diffusa e tenuta sotto silenzio”, dice Gabriele Guglielmo, in polizia locale a Torino e vicepresidente dell’associazione. I casi segnalati a Polis Aperta sono decine l’anno. Pescando nel mucchio: lo scorso luglio un giovane poliziotto milanese ha trovato scritto “i froci non ci piacciono” sull’armadietto. Tre mesi prima, in una caserma in Veneto, un militare 43enne ha espresso la volontà di suicidarsi perché “stanco degli insulti omofobi”. A Roma la scorsa primavera un poliziotto gay ha picchiato uncollega che lo vessava chiamandolo “frocio”.
L’ufficio deputato a combattere le discriminazioni nelle forze di polizia è Oscad. Dal 2015 ha formato 60 funzionari e ufficiali di polizia di Stato. Altri corsi sono previsti nelle scuole del corpo a Vibo Valentia, Campobasso e Peschiera del Garda. “Forze dell’ordine e forze armate sono specchio del Paese – dice il vicequestore Stefano Chirico, responsabile di Oscad – il sentimento sui temi della diversità non è differente da quello generale”. Quello che cambia sono le regole. Soprattutto per le persone transessuali.
Guglielmo spiega: “Con i transgender le polizie locali sono tolleranti. Nelle forze armate, Guardia di finanza compresa, resiste il famigerato comma 9”. Il riferimento è al nono comma dell’articolo 15 del regolamento militare sulle “infermità causa di non idoneità”, che cita “le parafilie e i disturbi dell’identità in genere. Per tutti, trascorso ove occorra il periodo di inabilità temporanea”. Un’impostazione introdotta dal ministero della Difesa nel 1999. “Con la scusa delle cicatrici dell’operazione, le persone transessuali vengono confinate in ufficio”, dice Moro.
In polizia di Stato viene denunciata una situazione ancora più difficile. Evelina Argurio, che lavora in questura a Genova, è responsabile Silp-Cgil contro le discriminazioni. “Il cambio di genere è considerato malattia, per cui le persone transessuali non possono essere assunte – dice – . Ogni pulsione deve essere repressa. Il decreto del ministro dell’Interno 198/2003 va cambiato”. La tabella delle “infermità neuro-psichichiche” cita “i disturbi sessuali e disturbi dell’identità di genere attuali o pregressi”. Quindi, niente assunzione. “Io, dipendente del ministero dell’Interno in ruolo civile, non ho problemi – dice Sarah Musolino, transessuale – nei ruoli operativi è diverso”.