Il 19 marzo prossimo a Parma è stata indetta da Coldiretti una manifestazione nazionale con lo slogan #facciamoluce. A leggere il volantino preparato per l’occasione, che si apre con un’impostazione apparentemente europeista, con richiami alla difesa della qualità e della sicurezza alimentare nell’ambito delle politiche comunitarie, si evidenzia immediatamente l’ossessiva crociata contro la carne coltivata. Il testo non si limita a una critica economica o di altra natura concreta, ma si avventura in un attacco basato su paure infondate, richiami pseudoscientifici e un uso distorto del principio di precauzione, secondo il più classico armamentario comunicativo di Coldiretti.
La narrazione si sviluppa con toni allarmistici, insinuando che la carne coltivata sia un rischio per la salute pubblica e per l’identità alimentare nazionale, senza fornire dati concreti a supporto. Si badi bene: il modo in cui si evocano “rischi non esclusi” per la salute, possibili effetti “non ancora escludibili”, insomma l’ossessivo insistere su rischi che non possono essere dichiarati inesistenti, è la solita trappola logica che permette agli antivaccinisti di continuare all’infinito a richiedere “maggiori dati” sugli effetti collaterali dei vaccini, qualunque sia la mole di dati già disponibile e il tempo di sperimentazione trascorso. Come e quali rischi debbano essere valutati è ben stabilito ormai dalle linee guida dell’Unione Europea e dall’Efsa; richiedere a esse, come fa Coldiretti, di “escludere rischi” attraverso sperimentazione equivale a una richiesta impossibile da esaudirsi, dato che nessun ammontare di richiesta può ridurre a zero un rischio (peraltro nemmeno identificato).
Eppure, sprezzante del ridicolo, Coldiretti evoca la necessità di una “sperimentazione clinica” su questi prodotti, un concetto del tutto alieno al settore agroalimentare, come se il cibo coltivato fosse una sostanza farmaceutica invece che un alimento. L’assurdità raggiunge il culmine quando si chiede, citando fuori contesto alcuni ministri di diversi paesi europei, che questi prodotti siano equiparati ai farmaci dal punto di vista delle garanzie richieste e della classificazione merceologica, come se una bistecca ottenuta in laboratorio dovesse passare attraverso lo stesso iter regolatorio di un medicinale destinato a curare patologie gravi. Coldiretti trasforma la carne coltivata in una minaccia esistenziale, con una retorica che mescola protezionismo economico e paura dell’ignoto, senza distinguere tra reali problemi regolatori e pura opposizione ideologica.
Quanto sia ipocrita e strumentale l’appello alla scienza, rivolto oltretutto nel momento in cui si incita nemmeno troppo velatamente a una protesta contro il principale organismo scientifico in materia, l’Efsa, dicevo quanto questo appello sia ipocrita e contraddittorio risulta evidente se si considera uno dei punti aggiuntivi presenti nello stesso manifesto. Mentre si chiede con insistenza che la carne coltivata sia sottoposta a rigorosi studi per escludere ipotetici pericoli e per tutelare la salute pubblica da tali rischi, troviamo espresso un bel “no a etichette allarmistiche e tasse sul vino”.
Ohibò: ma non è il vino quel prodotto che contiene etanolo, per il quale è stato ampiamente dimostrato l’effetto di incremento del rischio per la salute a qualsiasi dose? Ed è stato dimostrato proprio attraverso la ricerca preclinica e gli studi preclinici, strumenti che Coldiretti invoca a tutela della salute pubblica nel caso dei cibi cellulari? E come mai, in questo caso, l’appello alla scienza in tutela della salute pubblica non vale, anzi si va in direzione opposta? Ma poi vogliamo parlare del lievito, usato proprio per produrre il vino, oppure in quei bei cubetti che si vendono ovunque per produrre paste e panificare in casa? Ogni cubetto non è altro che un “alimento cellulare”, fatto di miliardi di cellule identiche ottenute a partire da un “banca dei ceppi”, cioè di linee cellulari ottenute in laboratorio e selezionate per la loro alta capacità fermentativa. Piccoli prelievi da quella “banca” sono coltivati in una coltura liquida in provetta, poi trasferiti su un terreno di coltura in un incubatore a temperatura controllata, e poi in grandi fermentatori, sempre in condizioni di terreno di coltura (per esempio melassa di barbabietola), temperatura e ossigenazione controllate, per arrivare a tonnellate di cellule ottenute nei laboratori industriali, che vengono infine separate per centrifugazione dal terreno di cultura e stoccate in cubetti di lievito.
Ma torniamo al vino: alla fine serve un “alimento cellulare” proprio per produrre il nettare di Bacco, e, nel dibattito tra inesistenti differenze dovute a lieviti “naturali” e lieviti “industriali”, oggi semplicemente si selezionano i lieviti per diverse tipologie di vino, creando appunto “lieviti selezionati” – magari su base locale – per Amarone e Brunello, ad esempio. Forse che non sono laboratori quelli dove si selezionano, si coltivano e si producono questi alimenti cellulari, e altri laboratori quelli dove se ne certifica la qualità?
E perché mai c’è bisogno di invocare procedure specialmente diverse per altri alimenti cellulari in arrivo? Perché, cioè la carne alimentata deve diventare un prodotto di grado farmaceutico, e invece i lieviti di pane, pasta, birra, whiskey e vino vanno bene così? E allora: principio di precauzione e più studi preclinici e clinici invocati per scoprire ipotetici rischi per la salute nel caso della carne coltivata, ma opposizione della menzione in etichetta di quei rischi per la salute già identificati da studi preclinici e clinici nel caso del vino. “Cibi cellulari” e laboratori demoniaci nel caso della carne coltivata, ma altri laboratori che invece vanno bene per produrre cubetti di miliardi di cellule come altre cellule selezionate e trattate con le nostre migliori biotecnologie per il nostro pane e i nostri vini.
La manifestazione di Parma davanti alla sede di EFSA, a gridare contro la carne coltivata, si rivela così come il teatro di una battaglia più culturale che economica, in cui la Coldiretti non si limita a difendere il reddito degli agricoltori, ma si lancia in una crociata contro una tecnologia che, in altre parti del mondo, viene sviluppata con l’obiettivo di affrontare sfide ambientali e alimentari globali. La carne coltivata, lungi dall’essere un pericolo per la salute pubblica, rappresenta una delle possibili risposte all’impatto ambientale e proprio sulla salute pubblica degli allevamenti intensivi e una delle risposte di fronte agli interrogativi etici imposti dall’allevamento in cattività e dall’uccisione di milioni di animali ogni anno. Il suo rigetto pregiudiziale dimostra più una chiusura ideologica che una reale volontà di affrontare il tema con serietà scientifica. Dietro lo slogan #facciamoluce della manifestazione, dunque, si cela un messaggio che, più che illuminare, sembra voler spegnere ogni apertura al progresso tecnologico nel settore agroalimentare. Quanti anni dovremo aspettare per un “momento TEA” di Coldiretti anche nel caso della carne coltivata?