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La protesta di parrucchieri ed estetisti: “Se non riapriamo subito, verremo sostituiti dagli abusivi”

Mag 7, 2020

ROMA – Il Censis in più occasioni lo ha definito il “nero” di sopravvivenza. Siccome con il coronavirus i problemi di sopravvivenza sono aumentati, è aumentato anche il nero, fino a minacciare la tenuta di interi segmenti di mercato. Parrucchieri a domicilio, colf licenziate per paura del contagio e costrette ad arrangiarsi con qualche ora di qua e qualche altra di là, senza contratto, ex commessi o lavoratori del turismo rimasti disoccupati che s’improvvisano raccoglitori di frutta nei campi rimasti a corto di braccia, perché i romeni o i marocchini sono rimasti bloccati nei loro Paesi per via del coronavirus. Elettricisti, impiantisti, muratori. Un nero che si è mosso abbastanza indisturbato, perché con il coronavirus l’Ispettorato del Lavoro è stato indirizzato esclusivamente alla verifica della corretta applicazione dei protocolli di sicurezza nelle aziende.

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A denunciare per primi la concorrenza sleale di chi lavora in nero parrucchieri ed estetisti, stremati dalla chiusura prolungata e in guerra con il governo che ha imposto loro la riapertura solo per il primo di giugno, anche se negli ultimi giorni si sta parlando di un anticipo al 18 maggio qualora la situazione dell’epidemia dovesse continuare a migliorare (alcune Regioni, come l’Abruzzo, lo hanno giù deliberato): “Questa situazione ha peggiorato un problema che esisteva già, – denuncia il presidente di Confartigianato, Giorgio Merletti – l’incomprensibile e inaccettabile decisione del governo amplia le perdite di fatturato delle imprese regolari a cui si sommano gli effetti della concorrenza sleale del sommerso. Nel settore dei servizi alla persona e attività artistiche e di intrattenimento, nel quale sono ricompresi gli acconciatori e istituti di estetica, il tasso di irregolarità del lavoro è del 26,3%”. La Cna ha anche inviato una lettera al ministro dell’Interno Luciana Lamorgese e al presidente dell’Anci Antonio De Caro per segnalare il problema: “Le innumerevoli segnalazioni che Cna Benessere e Sanità sta ricevendo – scrive il presidente Antonio Stocchi – confermano, purtroppo, il dilagare di una pericolosa pratica illegale, che mette a repentaglio la salute dei cittadini e la tenuta degli operatori che si attengono al rispetto delle regole”. Confartigianato calcola che la perdita conseguente alla chiusura prolungata fino all’1 giugno è pari a 1.573 milioni di euro, il 26,5% del fatturato annuo. Le potenziali ripercussioni sull’occupazione sono pesanti: i mancati ricavi, infatti, mettono a rischio il lavoro di 71 mila addetti del settore.

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Mentre in questo momento nulla minaccia chi lavora in nero, sostituendosi ai saloni di bellezza chiusi per legge, spiega Leonardo Alestra, Direttore dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro: “Il fenomeno del lavoro nero è molto diffuso, è concentrato nel settore dei servizi, e permane tuttora, nonostante la sospensione di una parte delle attività. Però andarlo a quantificare in questo momento diventa complicato, significherebbe invadere ulteriormente la sfera privata del cittadino. Un controllo in una casa privata, da parte nostra o dei carabinieri, per scoprire un parrucchiere abusivo sarebbe impensabile. E d’altra parte noi ci stiamo attenendo strettamente alle prescrizioni dei decreti, e quindi nelle Regioni sottoposte a cordone sanitario abbiamo sospeso le attività ispettive esterne, limitandoci a intervenire solo in caso di denunce di carattere urgente. La nostra attività per il momento è concentrata sulla verifica nelle aziende delle misure previste dai protocolli: rendicontiamo al prefetto, segnalando quelle che vanno sospese”.

Anche nel lavoro domestico ci sono casi di colf licenziate per paura del contagio e costrette a lavorare senza contratto: “Avevo quattro datori di lavoro – racconta Angela, polacca, da anni residente in Italia – Due mi hanno licenziata per paura che li contagiassi, e con le ore rimanenti lavoravo troppo poco. Ho dovuto chiedere agli altri due di licenziarmi per avere la Naspi, però quando posso continuo anche a lavorare un po’, in nero. Non è una mia scelta: conto di tornare a lavorare regolarmente appena qualcuno vorrà assumermi”. Un caso non unico, anche se non prevalente, dice Andrea Zini, vicepresidente di Assindatcolf: “Ad aprile ad aumentare sono stati soprattutto i licenziamenti, cresciuti del 30%. Il reddito di emergenza, se arriverà finalmente a maggio, potrebbe invece favorire l’emersione”.

Pure nell’agricoltura il rischio di lavoro nero è aumentato. Ma non si tratta dei lavoratori stranieri sfruttati e schiavizzati per pochi euro al giorno, situazione purtroppo ampiamente diffusa anche prima. Si tratta di lavoratori momentaneamente disoccupati che hanno pensato di supplire alla drammatica mancanza di braccianti denunciata dagli imprenditori agricoli: nei campi ci sono in questo momento 250 mila stranieri in meno, rimasti bloccati nei loro Paesi per via dell’emergenza coronavirus. I portali lanciati dalle associazioni agricole per favorire l’incontro tra domanda e offerta hanno ricevuto nel giro di pochi giorni oltre 15 mila domande d’impiego, anche da parte di persone che non avevano mai lavorato in questo settore. Molti di loro però, spiega Danilo De Lellis, responsabile relazioni sindacali della Cia, magari sono in cassa integrazione, oppure hanno diritto al bonus di 600 euro: “Chi vuole lavorare, ma non può permettersi di perdere il sussidio, viene messo alle strette. Da un lato non riesce a sopravvivere con 600 euro, però neanche può permettersi di vivere solo di quello. La tentazione di lavorare in nero è forte, anche se certo non è la via giusta. La soluzione dovrebbe essere questa: se si lavora in agricoltura per pochi giorni non si perde il sussidio o il reddito di cittadinanza. Se si lavora invece per alcuni mesi, il diritto non si perde neanche ma l’assegno viene però sospeso per il periodo in cui si viene pagati per il lavoro agricolo”.

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