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La pistola che distrugge due vite

Nov 30, 2018

Ciò che è accaduto a Monte San Savino, in provincia di Arezzo, è drammatico: nel corso di una rapina muore un uomo, un ragazzo di ventinove anni, Vitalie Tonjoc, ucciso da un piccolo imprenditore che, per difendere la propria attività, che poi coincide con la propria vita, da quattro anni dormiva nell’officina dove si trovano biciclette in fibra di carbonio e treni di gomme, che a rubarli ci si ricavano migliaia di euro e che a perderli si rischia di fallire.

La notte della rapina finita in tragedia, il giovane moldavo ha perso la vita e chi lo ha ucciso, nonostante abbia salvaguardato i propri beni, ha perso moltissimo. A Monte San Savino si è consumata una tragedia: la morte violenta non può essere archiviata come prassi di autodifesa e chiunque uccida un uomo muore insieme alla propria vittima.

La vicenda di Pacini, dell’ultimo furto, dell’uccisione del ladro, dei post di Salvini è nota, e naturalmente ciascuno ha la sua opinione al riguardo. Salvini dopo conia l’hashtag #iostoconfredy: verrebbe da dirgli, facile ora stare con Fredy, ma prima che la sua vita drammaticamente cambiasse (in peggio) dove erano le istituzioni?

La sensazione del pericolo, l’essere effettivamente in pericolo – perché di fronte a un uomo che sostiene di aver subito 38 tentativi di furti, le statistiche sul calo dei reati predatori non si possono tirare fuori – e il reagire al pericolo sono tre fasi distinte di cui dovremmo occuparci con molta cautela e sulle quali non si dovrebbero giocare vili partite politiche.

La vita di Fredy Pacini ora è peggiorata e non, come qualcuno banalmente ritiene e riferisce, perché un tribunale dovrà accertare come i fatti si siano svolti durante la rapina e nel momento in cui la sua Glock ha esploso i cinque colpi, di cui due hanno colpito Vitalie Tonjoc. E nessuna modifica all’attuale legge sulla legittima difesa potrà eliminare questo passaggio: chiunque spari, sappia che ci sarà sempre un processo – non fidatevi degli imbonitori al governo – nell’ambito del quale sarà, come tutti, considerato innocente fino a prova contraria. La vita di Fredy Pacini è peggiorata perché ha ucciso, perché si è trovato nella condizione psicologica – il processo stabilirà i dettagli – che lo hanno portato a togliere la vita a un altro uomo. Quello che nessuno vi dice ora è che, anche se hai paura e ti vuoi difendere, anche se sei stato vittima di ripetute ingiustizie, uccidere ti cambia la vita, pensare che sei dovuto arrivare alle estreme conseguenze per difendere ciò che è tuo è un pensiero insopportabile per chiunque.

Sono anni che studio e che racconto le storie di chi decide di usare le armi e che fa delle armi il centro della propria vita e di quella che, impropriamente, qui definisco “attività”. Sono nato e cresciuto in una terra, in una provincia, in cui il possesso e l’uso di armi da fuoco era considerato normale. Sono cresciuto in una terra dove la prima cosa che ti dicono, quando sei bambino, se non sei uno di “loro”, è di stare attento a come rispondi alle persone, ché non sai mai chi ti trovi davanti. La paura è sempre quella di subire un torto e di pensare di poter reagire, anche solo verbalmente, con una persona che a differenza di te è armata. Armata e abituata a sparare. Armata e che mette in conto di poter sparare, anche solo per scrollarsi di dosso l’onta di un “vaffanculo” preso magari per non aver rispettato uno stop. Sono anni che mi occupo di territori violenti e di chi rende violenti quei territori, utilizzando la sola prospettiva interna alle organizzazioni criminali e la prospettiva è quella di chi non teme lo Stato, di chi non teme le forze dell’ordine, di chi non teme le armi degli altri ma che anzi, sentendosi in guerra, non esita a utilizzare le proprie.

Che c’entra tutto questo con Fredy Pacini? C’entra. C’entra perché nonostante dormisse da quattro anni nell’officina, nonostante avesse – questo lo dicono persone a lui vicine – già sparato in aria (solo in aria!) e messo in fuga ladri in altre occasioni, nonostante fosse esasperato, nonostante avesse perso fiducia nelle forze dell’ordine, non credo fosse pronto a uccidere. È un imprenditore, non un criminale. È una persona che ha investito in una attività, non uno che con la forza conta di prendersi ciò che vuole.

E allora, la vicinanza a Fredy Pacini la capisco, ma le parole dovrebbero essere altre: “Ci dispiace che tu abbia dovuto sparare per difenderti. Ci dispiace che lo Stato non ti abbia dato supporto, ci dispiace che tu abbia dovuto subire trentotto furti, che tu sia stato costretto a dormire in officina per proteggere ciò che possiedi”. Lo Stato, nella persona del ministro degli Interni, ovvero il ministro da cui dipendono le forze dell’ordine, dovrebbe usare queste parole, e non altre. Ma Salvini non ha chiesto scusa e con la sua comunicazione social ha offeso chi dipende dal suo Ministero. Chi invita i cittadini a difendersi da soli, dice implicitamente che le forze dell’ordine sono incapaci di svolgere il proprio lavoro. Una tale bestialità la si può tollerare come chiacchiera da bar, ma non se a dirla sono rappresentanti del governo. Oltretutto è una comunicazione criminale: invitare implicitamente o esplicitamente i cittadini ad armarsi e a difendersi da soli è pericolosissimo perché l’esito di un duello tra persone armate è sempre incerto, e tra un cittadino per bene e un malvivente con la pistola, secondo voi chi avrebbe la meglio?

Possedere un’arma non è di per sé un diritto, essere protetti dalle forze dell’ordine, invece, lo è.

In questo continuo capovolgimento, in questo continuo mescolare, fino a rendere indistinguibile, ciò che è vero con ciò che è verosimile, si sta cercando di convincere i cittadini che debbano fare tutto da sé, anche difendersi. Addirittura difendersi. Qui non si tratta di negare ai cittadini il diritto di possedere un’arma e quello, assai opinabile, di usarla; qui si mette in discussione la nostra sicurezza: più armi in circolazione, anche se legalmente detenute, sono un fattore di destabilizzazione, non rendono le città, le campagne, le attività commerciali, e dunque le persone, più sicure, ma le espongono a rischi maggiori.

Tempo fa mi sono imbattuto in una sorta di opera omnia sull’uomo, si tratta di Human, documentario diretto da Yann Arthus-Bertrand e finanziato dalla Bettencourt Schueller Foundation e da GoodPlanet. Se vi capita di vederlo fate caso alle prime interviste: a parlare sono tutti uomini cui l’uso delle armi ha cambiato la vita, in peggio.

“Prima non morivamo come oggi”, dice un vecchio africano, “vivevamo in pace. Durante i nostri scontri non si moriva. C’era solo un fucile per villaggio. Quello che ci decima è il kalashnikov. […] Quest’arma è cattiva, priva le nuove generazioni e il paese della pace.”

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