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‘La giornata’ di Paola Clemente, il film simbolo della Puglia che si è ribellata al caporalato

Ott 5, 2017

E’ stato presentato alla Camera dei deputati il cortometraggio La Giornata. Voluto e prodotto dalla Cgil pugliese, diretto da Pippo Mezzapesa e scritto da Antonella Gaeta, racconta la storia di Paola Clemente, la bracciante pugliese morta di fatica nell’estate del 2015. Guadagnava due euro all’ora. E il suo cuore non ce l’ha fatta più. La vicenda di Paola Clemente ha un valore speciale per Repubblica. Insieme con Raffaella Cosentino, Antonello Cassano e tutta la nostra redazione siamo stati i primi a raccogliere la denuncia di un sindacalista cocciuto e coraggioso come Peppino De Leonardis, che parlava, trattato come fosse un pazzo, di quella morte strana avvenuta sotto i tendoni dell’uva ad Andria.

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I soli a condurre un’inchiesta contro quella nuova forma di caporalato, che porta la giacca e la cravatta invece che i vecchi abiti da campagna, ma che a parte i nomi (si chiamano agenzie interinali) non fanno nient’altro che quello che facevano prima i caporali: per arricchirsi sfruttano i braccianti, donne e uomini che in nome della necessità sono costretti ad accettare paghe da fame. Paola lavorava per due euro all’ora. Ed è morta per quello. Sembrava l’ennesima tragedia da archiviare in fretta: un funerale, qualche voce di paese. E poi tutto sarebbe tornato come prima. E invece no: il marito di Paola, Stefano Arcuri, i suoi figli, che ancora oggi pagano quel coraggio avendo difficoltà a trovare lavoro, hanno avuto la forza e la determinazione per presentare una denuncia.

Il lavoro di Repubblica ha spinto la Procura di Trani ad aprire un fascicolo e a disseppellire il cadavere di Paola. La determinazione della Cgil, e del suo segretario Pino Gesmundo, non hanno mai lasciato sola la famiglia Arcuri e le persone loro vicine. Tanto da portare le colleghe di Paola, dopo mesi di paure e di silenzi, a raccontare ai carabinieri e ai magistrati tutta la verità: e cioè che sì, le buste paghe erano false, e la paga non superava i due euro all’ora. Poco dopo scattarono gli arresti degli sfruttatori. A breve comincerà il processo.

Basterebbe questo per raccontare il miracolo di Paola. Ma c’è di più. Perché la sua morte ha rappresentato un punto di non ritorno. L’Italia ha riaperto all’improvviso gli occhi sonnecchianti sul tema del caporalato. Conservo ancora un messaggio di un collega: “Ma perché dovete rompere i c… alla gente che lavora? È stata chiaramente una morte naturale, sono cose che succedono”. Laddove per “gente che lavora” si intendevano i caporali che sfruttavano Paola e i suoi amici. E invece: “Vedere una donna italiana, bianca, che muore così è stato un pugno nello stomaco”, dissero, preoccupati, alcuni agricoltori. Avevano ragione.

Paola da morta è arrivata dove era impossibile pensare sarebbe potuta arrivare da viva. Al ministero dell’Agricoltura è stata intitolata una sala alla bracciante Paola Clemente. E alla sua memoria è stata dedicata la nuova legge anticaporalato, che seppur ancora monca sta facendo infuriare i produttori. Tanto da portarli al paradosso: per contestare la nuova norma, nelle piazze dei contadini sono scesi i latifondisti. Paola e la sua storia – quella di una moglie e di una madre che ha immolato la propria vita a un lavoro ingiusto, sbagliato – sono diventati il simbolo di chi non ce la fa più.

Quella faccia accogliente, quel sorriso

imponente che vedete nelle fotografie sui giornali, sono ormai il logo di una Puglia che è stufa di non farsi vedere: non quella dei milionari che affittano pezzi di spiaggia per festeggiare i loro matrimoni. Non quella cool della Taranta o fashion di Dolce e Gabbana. Esiste una Puglia che si spacca la schiena. Una Puglia che tratta i suoi figli e le sue figlie – bianchi o neri che siano, perché lo sfruttatore è democratico – come fossero schiavi. Ammazzandoli di lavoro.

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