BORGO SAN DALMAZZO. “Per non cadere nello sconforto cercavamo di scherzare il più possibile. Abbiamo anche dato dei soprannomi ai nostri carcerieri…”. Le mani in tasca, un cappellino di lana in testa, la giacca a vento ben chiusa sul collo. In poche ore Bruno Cacace è passato dal caldo della Libia all’autunno alpino. E mai il freddo gli è parso così piacevole.
Nel giardino di casa della mamma Rita, a Borgo San Dalmazzo, non stacca gli occhi dai tre nipotini. Gli tirano i pantaloni: “Nonno, vieni a giocare?”. La loro immagine è stata un’ossessione, da quel 19 settembre in cui l’auto su cui viaggiava con Danilo Calonego e l’italo-canadese Frank Poccia è stata assaltata da un gruppo di nove persone che li hanno incappucciati e portati in jeep in un viaggio lungo un giorno in mezzo al deserto.
Come si sopravvive a 47 giorni di prigionia?
“Cercando di non pensare alla famiglia. Sembra assurdo, però è così. Le mie figlie, i miei nipotini: la mente andava sempre a loro. Ma se non vuoi cadere nella depressione devi cercare di non pensarci”.
Come si fa?
“Si cerca di esorcizzare la situazione, ci si sforza di ridere, anche sulla prigionia. Ogni sequestratore aveva un soprannome. E ridevamo del fatto che tutti i rapiti quando li liberano sono ridotti all’osso e noi invece forse siamo ingrassati”.
Davvero?
“Facevano dei pentoloni di pasta grossi così e si innervosivano se non la finivamo”.
Almeno era buona?
“No, pessima. Salatissima e piccante. E poi avevano orari tutti loro: colazione alle dieci, pranzo all’ora di merenda e cena a mezzanotte”.
Vi hanno comunque trattati bene?
“Compatibilmente con le circostanze sì, non sono mai stati violenti. Io e Danilo parliamo arabo, questo ci ha aiutato”.
Avete avuto paura? Di essere venduti ai terroristi islamici, per esempio.
“Le paure ci sono sempre, non mi faccia parlare”.
Come passavate le giornate?
“Non passavano mai, era quella la difficoltà maggiore. Non hai niente da fare. Allora parli, parli… Per fortuna non ci hanno mai divisi”.
Che cosa l’ha spinta ad andare in Libia, ormai 15 anni fa?
“All’inizio è un lavoro come un altro, ma quando vai là te ne innamori. Prima ero stato a Derna e a Bengasi, prima che fossero dichiarate zone off limits. Adesso ero a Ghat, una città antica e bellissima. Se ti piace la sabbia quello è il posto giusto. E al campo si sta bene, anche se la sera non si usciva mai, per ragioni di sicurezza”.
Ma rispetto ad altre zone quella era considerata più sicura?
“Sì, soprattutto perché si è instaurato un ottimo rapporto con i tuareg, che sono persone molto affabili. Sono più di trent’anni che la Conicos lavora in quella zona ed è diventata un’istituzione. La gente viene al nostro campo a prendere l’acqua quando scarseggia in città. In quella zona spesso manca la corrente elettrica per diversi giorni, mentre all’interno del nostro campo abbiamo generatori potentissimi e aiutiamo la popolazione”.
Lei però era già stato aggredito una volta. Non temeva per la sua incolumità?
“Una volta ero stato rapinato, ma erano banditi normali. Una cosa che può capitare anche qui in Italia”.
Stavolta invece?
“Ho capito subito che non si trattava della stessa cosa. Ho detto che si prendessero la macchina, ma non era quello che interessava loro”.
Ha letto in questi giorni cos’hanno scritto i giornali su di voi?
“Non ancora. E in verità non so nemmeno se ho voglia di farlo. Ormai è andata”.
Ha sentito i compagni di prigionia dopo la liberazione?
“No. Frank lo conosciamo poco, non lavorava per noi, era solo nostro ospite: un bravo ragazzo. Danilo, invece si divideva tra il suo paese in Veneto e Marrakech. Ma gliel’ho detto chiaro: non andare più in Marocco, perché appena senti parlare arabo ti torna in mente tutto…”.
Lei invece cosa farà adesso?
“Andrò in Francia dove abitano le mie figlie, ma non mi chieda se tornerò in Libia, loro due mi sparerebbero”.